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Questo articolo è stato pubblicato il 24 marzo 2013 alle ore 08:26.

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Dopo avere variamente saggiato il livello delle proprie ambizioni drammaturgiche, Fausto Paravidino torna in qualche modo al minimalismo degli inizi, a quella sua capacità di catturare frammenti di realtà scrutati nei minuti dettagli con una sorta di distaccata oggettività. Lo stile, in questo caso, coincide alla perfezione col contenuto, giacché Exit racconta una crisi di coppia senza grandi cause scatenanti, una crisi colta solo nei suoi impercettibili smottamenti, nel lento accumularsi di piccoli silenzi, di piccole frustrazioni quotidiane.
Questo taglio essenziale è affermato fin dall'impianto scenografico, uno spazio vuoto, dai colori vividi, scandito da una segnaletica luminosa: do not walk outside this area, si legge alla base del palco, Exit è l'indicazione fissa che pende dal soffitto. Poi via via scenderanno le insegne di una libreria, di un bar, di una gelateria. Le varie fasi dell'azione stessa sono indicate da tre scritte al neon, Affari interni, che si riferisce ai rapporti domestici fra i due coniugi, Affari esteri, sul loro cercarsi compagnia fuori di casa, In Europa, che inquadra un finale dagli esiti incerti.
Già queste immagini suggeriscono un approccio asciutto, per certi versi analitico, che non esclude la tenerezza, ma senza complicità emotiva nei confronti dei personaggi: l'autore, di fatto, non pare curarsi dei loro smarrimenti personali, traccia degli inesorabili diagrammi da cui risulta come non possano non separarsi, non possano non instaurare altre relazioni, non possano non tornare insieme, condannandosi fatalmente a un nuovo fallimento. Questo bisogno di lasciarsi e ritrovarsi non prevede vie d'uscita.
Paravidino, come sempre, dimostra una raffinatissima padronanza formale. La sua scrittura ironica, spigliata è interessante soprattutto quando mescola dialoghi veri e propri a momenti in cui gli attori si rivolgono direttamente al pubblico. Sono evidenti i debiti nei riguardi del linguaggio cinematografico, specialmente di Woody Allen, ma senza il fulminante umorismo ebraico di quest'ultimo: la trama in sé sembra derivare pari pari da un incrocio fra Manhattan e Io e Annie.
Lo spettacolo è carino, un po' fragile, ma piace molto al pubblico, che vi trova motivo di una doppia identificazione: si riconosce nella vicenda perché vi riconosce qualcosa che ha già visto sullo schermo, e vi ritrova comunque quella serie di buffi attriti, di innocenti o insanabili contrasti che toccano tutti, che appartengono inevitabilmente a qualunque vita a due. Ho già osservato, d'altronde, che il teatro ultimamente va benissimo, e le commedie intelligenti di questo tipo possono incarnare egregiamente quel "consumo di qualità" verso il quale auspicabilmente si sta andando.
Come gli ambienti, fatti di pochi oggetti introdotti di volta in volta, anche i personaggi vengono composti praticamente "a vista" dai quattro eccellenti interpreti: Sara Bertelà e Nicola Pannelli sono bravi nei panni dei due coniugi, le cui figure, già nel testo, sono tuttavia tratteggiate in modo un po' convenzionale. Personalmente mi hanno intrigato di più i due comprimari, Davide Lorino, l'amico di lei, che non accetta di diventare amante per non compromettere il legame cameratesco, e soprattutto Angelica Leo, la studentessa con cui si è messo l'uomo, la più forte e insieme la più inerme, la più acerba e la più matura, incinta di lui senza ben sapere se vorrà dirglielo.
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«Exit», testo e regia di Fausto Paravidino, in tournée

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