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Questo articolo è stato pubblicato il 24 marzo 2013 alle ore 08:27.

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«Vivere in un ambiente è bello quando l'anima è altrove. In città quando si sogna la campagna, in campagna quando si sogna la città. Dappertutto quando si sogna il mare», dice lo scrittore. Ma la scrittrice ribatte: «Solo le donne abitano i luoghi, non gli uomini… Sono incrostate nella stanza, come inserite nei muri, nelle cose della stanza». Lui è Cesare Pavese, lei Marguerite Duras, che racconta per la prima volta i «paesi suoi» in una lunga intervista rilasciata alla giornalista francese Michelle Porte. Da quella conversazione è nato un libro, I miei luoghi, con tanto di suggestivo corredo iconografico (foto di famiglia, immagini di paesaggi, frame di film) e qualche dialogo cinematografico, ora edito da Clichy. «Non si scrive affatto nello stesso luogo degli uomini. E quando le donne non scrivono nel luogo del desiderio, non scrivono, sono nel plagio».
La lunga riflessione sulla femminilità porta l'autrice ad affermare: la donna «è in se stessa una dimora… lei è abitata, lei stessa è come un luogo abitato», proprio come la musa Anne-Marie Stretter, moglie dell'amministratore generale in Vietnam, di cui la Duras si invaghì perdutamente. «I miei film e i miei libri sono delle storie d'amore con lei», dalla pellicola India Song al romanzo Il rapimento di Lol V. Stein. Se è vero che la donna è anche strega, fattucchiera, è altrettanto vero che «la cosa più vicina all'assassinio che ho visto è il parto… Il bambino è come un beato. Il primo segno di vita è l'urlo di dolore... È più di un grido, sa. Sono le urla di uno sgozzato, le urla di una persona che viene uccisa, che viene assassinata. Le urla di qualcuno che non vuole».
Le presenze femminili hanno stanze tutte per sé, e le abitano come fantasmi o numi tutelari: «Potrei parlare ore di questa casa, del giardino. Conosco tutto, so dove sono le vecchie porte, tutto, i muri dello stagno, tutte le piante, il posto di tutte le piante, conosco anche il posto delle piante selvatiche, tutto». Tuttavia, i «miei luoghi» non evocano solo ricordi felici e numinose presenze: «In una casa c'è anche l'orrore della famiglia che vi è inserita, il bisogno di fuga, tutti gli umori suicidi. Vede, è curioso, di solito la gente torna a morire a casa propria». Ispirazione e incubo, l'abitazione è per Marguerite embrione di suggestioni e visioni: «Per Nathalie Granger io sono completamente partita dalla casa… La casa era già cinema». Infatti, molti dei suoi film si svolgono «in una casa isolata dall'esterno», oppure in «un perimetro chiuso della casa, del parco, del bosco». Anche se ora «la foresta è una cosa folle, e nella mia vita è stata l'infanzia», in Vietnam, quando cacciava insieme al fratello a piedi nudi, selvaggia, sentendosi «più vietnamita» che europea tanto da «non riuscire a mangiare cibo francese».
Nata nel 1914 a Saigon, Duras conserverà tutta la vita odori, sapori e sensualità orientali, consacrati dal suo bestseller, L'amante, con cui vinse il "Premio Goncourt" nel 1984. Artista cosmopolita e ribelle, ex partigiana, fuoriuscita dal Partito comunista nel fatidico 1956, l'autrice fu protagonista del maggio '68: è degli anni Sessanta il suo interesse per il cinema, da quando Alain Resnais le chiese una sceneggiatura. Nacque così, nel 1959, un film che passerà alla storia: Hiroshima, mon amour, il punto più alto del delicato rapporto d'amore e odio che legava la Duras al cinema. Altre sue pellicole famose furono La diga sul Pacifico, girato da René Clément, e Moderato cantabile, diretto da Peter Brook e interpretato da Jean-Paul Belmondo e Jeanne Moreau (che, per quell'interpretazione, si aggiudicò un premio a Cannes). Sempre a un suo romanzo, Henri Colpi si richiamò per L'inverno ti farà tornare con Alida Valli. Non mancarono, poi, le pellicole "in proprio", come La musica e Détruire dit-elle, Giallo il sole e Nathalie Granger, La femme du Gange e Le camion, in cui recitò affianco a Belmondo. Altri suoi titoli sono Des journées entières dans les arbres, Baxter, Vera Baxter, Le navire night, L'homme atlantique. Eppure, il suo unico successo sul grande schermo fu L'amante, diretto da Jean-Jacques Annaud, adattamento che la Duras criticò aspramente.
Sardonica, una volta disse: «Faccio film per occupare il mio tempo. Se avessi il coraggio di non fare niente, non farei niente». Il cinema fu per lei croce e delizia, e non riuscì mai a liberarsi del suo universo letterario, così ingombrante sullo schermo: «Il cinema che faccio lo faccio nello stesso posto dei miei libri. È quello che chiamo il posto della passione. Dove si è sordi e ciechi». Su tutti i luoghi, troneggia il mare, che tanta parte ha pure nella sua produzione romanzesca. Per «la gente di La femme du Gange», che «abita la sabbia», «il mare è presente in ogni momento, è come se fosse il respiro del film». La storia «è sulla sabbia che ormai affonda, sul mare… Sono sempre stata in riva al mare nei miei libri… Il mare mi fa molta paura, è la cosa la mondo di cui ho più paura… I miei incubi, i miei sogni spaventosi riguardano sempre il mare, l'invasione dell'acqua». Femminino, ancestrale e tremendo, «il mare è completamente scritto per me. Sono come pagine, come dire, pagine piene, vuote a forza di essere piene, illeggibili a forza di essere scritte, di essere piene di scrittura». Il mare è donna. «Lei gli chiede il colore del mare. Lui non ricorda».
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Marguerite Duras, I miei luoghi. Conversazioni con Michelle Porte, Edizioni Clichy, pagg. 144, € 12,00

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