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Questo articolo è stato pubblicato il 24 marzo 2013 alle ore 08:27.

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Hanno gli occhi pieni di lacrime e come fanno tutte le ragazze del mondo, quando mentre piangono si accorgono di essere osservate, si vergognano. E sorridono. Siamo a Hong Kong. Prima sera di Traviata al Grand Theatre, 1.700 posti pieni fino all'ultimo nel moderno Centro culturale affacciato sulla Baia. È anche la prima volta per il San Carlo di Napoli, che debutta in Cina, orchestra, coro e ballo capitanati da Roberto Abbado, ospiti del prestigioso «Arts Festival», alla quarantunesima edizione.
Le ragazze in sala hanno gli occhi neri lucidi. È il secondo intervallo e Violetta, più o meno loro coetanea, 170 anni prima, non è ancora morta. Ma loro sono commosse. Hanno capito. Sono le stesse che avevamo fotografate nello shopping compulsivo, in fila indiana, ostinate di fronte ai negozi di griffe, quasi tutte italiane, lì di fronte, in Canton Road. Non avremmo mai scommesso né di vederle a teatro, né che il caro nostro vecchio Verdi sarebbe andato a colpire proprio loro: generazione veloce e sfuggente, per formazione e interessi così lontana.
A Hong Kong per il bicentenario non hanno avuto dubbi su chi scegliere: Verdi. Wagner col Lohengrin è stato rimandato all'anno prossimo. Nessuno ha polemizzato. E Verdi affidato alle maestranze partenopee va subito a centro: bastano i primi minuti nella Sinfonia di Traviata per dimostrare cosa voglia dire suonare parlando, fraseggiare dicendo tornita ogni nota, passarsi un disegno melodico tra i leggii come un dialogo naturale. Letto mille volte, presentato ancora creando emozione. Un mestiere così non si improvvisa. È la nostra cultura. Quanto tempo ci voglia per crearla il mondo lo sa. Per questo invita i nostri teatri.
Roberto Abbado stringe i tempi, sterza sulla emozione facile, la rende più profonda. Chiede un passo serrato e veloce che all'inizio fa trattenere il respiro: in tournée siamo di parte. Vogliamo che i nostri vincano. Ce la faranno, tra jet lag, viaggio di 24 ore, prove all'ultimo? Ce la farà il coro, che attacca un «Si ridesta in ciel l'aurora» che brucia, tanto è incalzante, pianissimo? Ce la fanno. Tesi fino alla fine, trionfanti. Il pubblico applaude in continuazione, in corso d'opera contiamo almeno sette fermate. Da noi non usa più. E non è detto sia un bene. La Traviata del San Carlo non è solo eseguita: a Hong Kong viene tradotta. Spiegata e parlante, come a Verdi sarebbe piaciuta.
Non l'avevamo sentita così a Napoli, tre mesi fa. È la stessa produzione con la regia di Ferzan Ozpetek, che lo scorso dicembre aveva inaugurato la stagione in casa. Certe incongruenze, ad esempio l'ambientazione turca, inessenziale alla drammaturgia, scivolano sullo sfondo. Marina Bianchi la riprende con bella mano, fa miracoli compattando il palcoscenico e addestrando le comparse locali. Anche i costumi di Alessandro Lai, bellissimi e vivaci, dove si mischiano turbanti, frac e giarrettiere, disorientano meno, perché in qualche modo rispecchiano il melting-pot della sala, dove si parla inglese, francese, cinese (e napoletano), dove la famigliola canadese con bimba biondissima siede accanto alla scolaresca in divisa, dove si beve the o Starbucks. E nessuno protesta se la pausa dura quaranta minuti anziché venti, perché la scena maestosa di Dante Ferretti nel secondo atto, con giardino e velari, risulta terribilmente ardua da montare per le maestranze locali, che pestano coi martelli a più non posso (mentre fuori, per strada, chissà come in un attimo alzano sui grattacieli palizzate vertiginose di bambù).
Qui il teatro è comodo e per tutti. La metrò sbuca nel foyer. Si arriva dal lavoro, vestiti normali. Sono ammessi gli ombrelli in sala (chiusi). Su ogni poltrona c'è un programma di sala, breve e ben fatto, gratuito. Ci sono ben tre schermi per i sovratitoli, in cinese e inglese: si va a teatro per capire. Per gioire (e l'altro titolo che porta il San Carlo, Il marito disperato di Cimarosa, fa sbellicare dalle risate con Paolo Rossi regista e attore) o per piangere. Il teatro non è un rito. È scoperta, al presente. Il pubblico è giovane. Gli artisti, sensibili, lo sentono. Avvertono il cambio di marcia. Soprattutto lei, la Traviata di Carmen Giannattasio: anche lei poco più che ragazza, reinventa il personaggio con un netto profilo intimistico, mai esibito, al contrario costantemente introspettivo. In crescendo, ha un indimenticabile «Voglio uscire»: così autentico, nel finale. Josè Bros la salva quando per l'emozione si perde una battuta, nell'ultimo duetto. E Abbado dosa all'istante i volumi dell'orchestra, con straordinaria empatia. Così dopo aver cantato delibando soavi melodie e parole («fremiti»), tenore luminoso e puro, magnifico, porta anche il brivido della vita nel teatro. Simone Piazzola, baritono, fa un papà Germont sostenuto, asciutto, severo. E naturalmente strappa l'applauso più entusiasta, di slancio, con «Di Provenza il mare il suol». A Hong Kong, come fa tutto il mondo.
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La Traviata, di Verdi; direttore Roberto Abbado, regia di Ferzan Ozpetek; Hong Kong, Grand Theatre

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