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Questo articolo è stato pubblicato il 28 marzo 2013 alle ore 08:11.

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Si è sempre detto che la Rassegna internazionale del jazz di Bergamo è il festival che annuncia la primavera, perché si tiene nei giorni che precedono e seguono immediatamente il 21 di marzo. Questa volta la tradizione non è stata rispettata. Pioggia, vento, freddo e perfino qualche fiocco di neve hanno afflitto gli spettatori che peraltro hanno affollato ugualmente sia il Teatro Donizetti, sia le sale deputate agli "eventi collaterali", cioè l'Auditorium e il GAMeC, acronimo di Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea.

Invece si è ripetuto per il secondo anno della direzione artistica di Enrico Rava quanto si era notato nel 2012: i collaterali mattutini e pomeridiani di Bergamo sono i concerti per gli intenditori, gli appuntamenti che tanti festival-fotocopia non osano proporre escludendo il Belpaese da eventi (appunto) che sono di grande interesse e non di rado i migliori.
Vediamo di rendere conto del meglio (e del peggio) che si è ascoltato, setacciando un poco. L'incipit al GAMeC tocca in solo a Marc Ribot, munito di una chitarra acustica che a guardarla sembra ci abbia suonato Napoleone, ma nelle sue mani funziona perfettamente. Un tantino eclettico come suole, Ribot sceglie temi di Coltrane, Ayler, Casseus e noti standard (perfino Smoke Gets In Your Eyes diventato di rara esecuzione). Boati di applausi e un filo di noia dai troppo esigenti. Al Donizetti si parte con la migliore nostalgia del passato a cura del pregevole settetto di Dino e Franco Piana che ospita nomi di spicco del jazz italiano. I suoni più intensi, guarda caso, vengono dal trombone a pistoni di Dino Piana, 83 splendidi anni, al quale ne auguriamo tanti e tanti ancora. E' seguito il vocione bellissimo (ma tanto simile a Nat King Cole!) di Gregory Porter, atteso con qualche preoccupazione per le notizie circa i suoi esiziali accompagnatori diramate due mesi fa dall'Umbria Jazz Winter. Questa volta (meno male) sono quattro anziché sei, durante le soste in Europa hanno imparato a capire il pubblico del Vecchio continente e – non sembri eccessivo – a vestirsi in modo decente, per cui il leader è nel giusto risalto come merita.

Il grande botto arriva nel pomeriggio successivo all'Auditorium. Lo fa il giovane trombettista Peter Evans. Per vari esperti italiani (a proposito di quanto si è detto sopra) si tratta addirittura di una prima assoluta, cd compresi, sebbene Evans ne abbia già licenziati a suo nome almeno sei o sette. Sono con lui i più noti John Hebert contrabbasso e Kassa Overall batteria. Evans si avvale di tecnica prodigiosa che gli permette i più audaci voli d'avanguardia, ma non è questo il punto. Espone temi ardui e li esplora oltre ogni limite possibile, frantumandoli, rovesciandoli, ricuperandoli ogni tanto qua e là e poi ricominciando da capo in altro modo. E non perde mai di vista le esigenze espressive e l'interplay con gli eccellenti compagni. Alla fine gli intenditori sono allibiti e felici, consapevoli di aver fruito del vertice insuperabile del festival.
Torniamo al Donizetti. Ecco Giovanni Guidi in quintetto. A soli 28 anni il pianista, compositore e direttore umbro è una star internazionale (il termine è brutto ma sul momento non mi sovviene di un altro). Posso ben dirlo perché ho per Guidi un'attenzione speciale fin dal principio. E' uscito da poco il suo ottimo cd City of Broken Dreams in trio per l'etichetta Ecm, e chi conosca l'ambiente specifico sa quale significato abbia un simile traguardo. Ma queste cose sono impegnative soprattutto per lui. E quindi non mi sfugge qualche mormorio che in teatro serpeggia fra i competenti di fronte a sei brani (l'ultimo concesso come bis) che il gruppo propone, quattro dei quali caratterizzati da una lentezza che è parsa eccessiva. Nulla di grave, basta tenerne conto. Un altro quintetto si esibisce poi all'Auditorium: è quasi un premio per la giovane chitarrista americana Mary Halvorson che la rivista italiana "Musica Jazz" ha giudicato il migliore talento internazionale emerso nel 2012. Halvorson mostra di meritare l'ambìto titolo, quantunque non abbia ancora il polso e l'autorità direttoriale. Ma li conseguirà molto presto.

Al Donizetti si assiste ancora al duo di Uri Caine e Han Bennink, pianoforte e percussione, il concerto più pirotecnico della serie per via della famosa capacità trascinante di Bennink: per lui la percussione è nello stesso tempo un fenomeno visuale, teatrale, addirittura comico, al quale un pianista fra i più grandi come Caine talvolta stenta a uniformarsi. Il festival si conclude poi in modo «tranquillo» con l'Organic Trio del chitarrista John Scofield ben coadiuvato all'organo Hammond – insolito connubio – da Larry Goldings e alla batteria da Gregory Hutchinson. L'uditorio sfolla soddisfatto, Bergamo Jazz è andato bene ancora una volta.
Ma a chi scrive spetta un breve codicillo. Dulcis in fundo oppure in cauda venenum? La domanda giusta è la seconda, c'è veleno nella coda dello scorpione. Il sommo poeta Dante direbbe che di Hermeto Pascoal & Grupo «fia più bello tacer che dire», ma di Pascoal non si può tacere dopo i guai combinati nello scorso agosto in Sardegna, a Sant'Anna Arresi, dove avrebbe dovuto commemorare nientemeno che Thelonious Monk, e ripetuti nella seconda serata al Donizetti di Bergamo. Basti citare l'inizio del Grupo, quando la cantante Aline Morena, incurante dell'ira degli dei, ha osato affrontare la temibile aria della Regina della Notte dal Flauto Magico di Mozart stonando come una campana rotta, e il resto ne è stato degno.

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