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Questo articolo è stato pubblicato il 07 aprile 2013 alle ore 08:21.

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Viva Sansone, coi suoi capelli lunghissimi, neri, a treccine, più Bob Marley che la Bibbia, affidato alla voce straordinariamente eroica, piena e luminosa del tenore Aleksandrs Antonenko. E viva La Fura dels Baus, che osa leggere l'opera di Camille Saint-Saëns restituendola alla natura di Oratorio: lo spettacolo rimane di sfondo, audacemente bianco e nero per primo e terzo atto, rosso acceso per il passionale secondo. È sorretto da raffinate proiezioni, con i faccioni dei cantanti sparati come gigantografie (ormai nessuno ne fa a meno). Tuttavia all'interno della "techno" dominante, individua alcuni gesti chiave, forti e profondamente umani, che raccontano la storia, sempre in eco con la musica.
È importante la nuova produzione del Samson et Dalila all'Opera di Roma. Il Teatro della Capitale sul piano artistico della programmazione e su quello della qualità di Orchestra e Coro si impone oggi ai livelli più alti. Chi avesse frequentato la sala qualche anno fa, non la riconoscerebbe. Il cartellone è dei meglio pensati: Verdi tutto per Muti, che così forgia uno stile e crea identità di suono, e gli altri titoli cercati nei capolavori dimenticati, sbalzati con gusto moderno. Il mondo visionario della Fura di Carlus Padrissa potrebbe stare in una galleria d'arte contemporanea: le corolle stilizzate dei fiori bianchi e leggeri, per la festa di primavera, o i totem che imitano Picasso e che in conclusione diventano le colonne del tempio fatto crollare dal robusto Sansone (perennemente inguainato in tuta nude-look, muscolosa, con calzoncini da calciatore) rappresentano oggetti belli da vedere. Sontuosi ma leggeri, grotteschi ma improvvisamente ridotti a nulla, come è nell'estetica delle regie del gruppo catalano.
Se Antonenko brilla di giovinezza e spavalderia tenorile, lei, Dalila, gioca la carta irresistibile di una voce matura, dosata con insinuante saggezza, capace di scendere nel registro grave con colori di epidermica sensualità. Dizione erotica, fraseggi regali. Sansone è sedotto. Ma anche il direttore, Charles Dutoit: 77 anni che sembrano la metà, braccio sinfonico, debutta – incredibile – nella buca all'Opera, che lo ripaga con una disciplina strumentale encomiabile per tutti, eufonio compreso. L'accompagnamento a Mon couer s'ouvre a ta voix sprigiona scintille d'acciaio, fredde, a rivelare la modernità di Saint-Saëns. Nel 1877, due anni dopo Carmen di Bizet, le sta vicino con il Baccanale ispanico del finale. Suonato benissimo, ma poco risolto dai "Fureri", che trasformano l'orgia biblica in un complicato bondage con funi lunghissime, forse i capelli di Sansone, per otto uomini-donne, variamente accoppiati. Per fortuna c'è dietro a quinta il Coro di Roberto Gabbiani, solido nei contrappunti e nelle pericolose linee omofoniche, che proiettano Saint-Saëns nel Novecento.
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Samson et Dalila di Saint-Saëns; direttore Charles Dutoit, regia di Carlus Padrissa/La Fura dels Baus; Roma, Teatro dell'Opera,
fino al 13 aprile

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