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Questo articolo è stato pubblicato il 07 aprile 2013 alle ore 08:19.

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Alcuni medici offrono a pazienti e loro disperati familiari trattamenti con cellule staminali che non hanno alcun fondamento scientifico. Il ministero tentenna di fronte alle pressioni. L'ospedale pure e somministra. Ci vuole qualcuno che renda quadrate le cose rotonde (aequat quadrata rotundis), un giudice.
Vari piani s'intersecano. Chiedersi se allo stato delle conoscenze sia ipotizzabile una terapia con cellule staminali per talune malattie è una questione di scienza. Se determinati preparati siano rispondenti ai criteri stabiliti dalle regole internazionali è una questione di sicurezza di cui un ministero e gli enti regolatori è giusto che si occupino. Se determinati preparati, pur conformi alle norme di sicurezza, siano trattamenti che un medico possa proporre a un paziente è una questione di clinica e deontologia. Se un giudice ha, da un lato, i risultati di un'ispezione dell'ente regolatore (l'Agenzia italiana del farmaco), secondo la quale quel preparato non ha nulla di attivo e anzi contiene inquinanti, e, dall'altro, le affermazioni di familiari e curanti e ordina, pur in assenza di qualsiasi evidenza scientifica, a un ospedale di procedere a quel trattamento, siamo in presenza di una seria questione di diritto e di un giudice che, in nome del diritto alla salute, aequat quadrata rotundis. Se, poi, un ministro, prendendo spunto da questa azzardata equazione, ottiene dal suo governo un decreto legge che estende a tutti quelli che hanno iniziato un trattamento di tal genere il diritto a proseguirlo, lasciando fuori quelli che non lo hanno iniziato, crede di evitare una discriminazione, ma la sposta solo più avanti. E se, infine, lo stesso ministro elabora un regolamento che deregola più che regolare, vi è una evidente questione di politica sanitaria.
Il livello di confusione raggiunto sembra non risolvibile. Eppure una via vi è per tutti, ricercatori, produttori di cellule staminali, ospedali, medici, ministri e, persino, giudici: seguire le più solide e accreditate conoscenze scientifiche, secondo le quali per quelle malattie non vi sono trattamenti a base di cellule staminali che possano essere proposti a pazienti e che mancano studi pubblicati su accreditate riviste scientifiche e una sperimentazione, neanche avviata, di fase due o tre. Se ci si discosta da questo punto si entra in una terra di nessuno nella quale tutto sembra possibile.
Certo il giudice può utilizzare il richiamo al diritto alla salute, che l'articolo 32 della Costituzione indica come fondamentale diritto dell'individuo, ma a patto che si tratti di cure indispensabili, sulla base di una rigorosa valutazione tecnica (quindi non solo secondo le affermazioni del diretto interessato o le «impressioni» del medico curante nel singolo caso), e che vi siano evidenze scientifiche o, almeno, serie e documentate ipotesi scientifiche, anche se l'iter sperimentale non è ancora completato. Se si prescinde da questi presupposti perché mai si dovrebbero negare ostriche e champagne o vacanze in luoghi ameni a chi asserisce di avere da essi un beneficio alla propria salute fisica e psichica, pure tutelate dall'articolo 32 della Costituzione?
L'errore sta nell'attribuire al diritto alla salute la qualità di far ottenere cose e non l'accesso a relazioni sociali e giuridiche che sono governate da regole scientifiche e cliniche. La Corte costituzionale ha ribadito più volte, da ultimo dichiarando incostituzionale la determinazione legale del numero di embrioni da produrre nella fecondazione assistita, che la legge non può dire al medico cosa deve fare, perché la moderna pratica medica è basata su conoscenze scientifiche, e quindi gode delle garanzie di libertà che gli articoli 9 e 33 della Costituzione riconoscono alla ricerca scientifica. Dunque è la fondatezza scientifica la chiave di volta del tutto: essa protegge il medico da invasioni giuridiche indebite, ma indica anche il limite entro il quale l'attività medica è legittimata e può rivendicare la sua libertà. E, ancora, sono proprio la fondatezza scientifica e l'appropriatezza clinica che realizzano il diritto alla salute, in generale e nel caso concreto. Sempre in nome di quella libertà i medici potranno rifiutarsi di somministrare trattamenti evidentemente infondati. E anche gli ospedali, che sono responsabili per il modo in cui utilizzano le risorse pubbliche, potranno opporsi a richieste scientificamente e clinicamente infondate.
Il giudice che dimentica questo passaggio fondamentale, in nome dell'essere giudice del caso concreto, in realtà si fa gestore e garante della mancanza di basi sperimentali. È questo bypass che si vuole?
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