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Questo articolo è stato pubblicato il 07 aprile 2013 alle ore 08:20.

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Nel 1913, nella chiesa romana di S. Pietro in Vincoli, un visitatore era tornato quasi ogni giorno per tre settimane in meditazione solitaria davanti all'impressionante statua del Mosè di Michelangelo. Si trattava di Sigmund Freud che, di fronte a quell'immagine severa e possente, faceva germinare dentro di sé ben tre saggi che avrebbe elaborato tra il 1934 e il 1938 e raccolto in unità nell'opera L'uomo Mosè e la religione monoteistica (presente in italiano nel volume XI delle Opere di Freud, edite da Boringhieri). Molti sono i turisti che sostano, con indubbia minor concentrazione, davanti a quella statua e solo i più informati sanno che essa fa parte del grandioso monumento funebre di papa Giulio II.
Siamo partiti da quel cenotafio (in realtà il pontefice è sepolto in S. Pietro, nella cappella dello zio, il papa Sisto IV) perché nei giorni un po' tumultuosi dello scorso febbraio, scanditi dalla rinuncia di Benedetto XVI, cadeva un particolare anniversario: cinquecento anni prima, nella notte tra il 20 e il 21 febbraio 1513, si spegneva nel palazzo apostolico proprio Giuliano della Rovere, che era nato ad Albisola in Liguria settant'anni prima, nel 1443, ed era asceso al soglio pontificio il 1º novembre 1503, dopo un conclave brevissimo durato solo due giorni. A lanciarlo nella carriera ecclesiastica era stato proprio lo zio Francesco della Rovere, anch'egli ligure, eletto papa nel 1471 da un collegio cardinalizio composto di soli 17 membri.
Perché vogliamo ricordare questa data e il relativo pontificato di Giulio II, pur non avendo una competenza storiografica? Lo facciamo perché questo pontefice – che fu pesantemente coinvolto nella politica e che non riuscì a intuire il ribollire che stava per esplodere con la Riforma protestante – fu però un emblema eminente del mecenatismo cattolico, così come lo sarà anche il suo altrettanto celebre successore Leone X, il fiorentino Giovanni de' Medici, secondogenito di Lorenzo il Magnifico. Alle soglie dell'inaugurazione a fine maggio della Biennale d'Arte di Venezia, ove per la prima volta la Santa Sede si affaccerà con un suo padiglione, è significativo rievocare questo grande artefice del dialogo tra arte e fede, una sorta di patrono "profano" (Giulio II non aveva le qualità per aspirare alla santità...) del tentativo di riannodare il legame tra queste due realtà unite per secoli da un vincolo intimo.
C'è, se si vuole, anche una memoria personale che mi permette di introdurre l'atto più splendido di Giulio II. Lo scorso 31 ottobre 2012, nella Cappella Sistina, Benedetto XVI volle che fossi accanto a lui con un altro cardinale ai Vespri che là si celebrarono per rieditare la scena che cinquecento anni prima s'era compiuta in quello stesso spazio con un identico rito: Giulio II in quella data aveva, infatti, inaugurato coi Vespri solenni il completamento della straordinaria volta che Michelangelo aveva affrescato con le celebri raffigurazioni della Genesi, con altre scene bibliche, coi profeti Zaccaria, Gioele, Ezechiele, Geremia, Giona, Daniele, Isaia e con le Sibille Eritrea, Persica, Libica, Cumana e Delfica. Prima di questa impresa, ricompensata con seimila ducati, Giulio II aveva commissionato allo stesso artista il monumento funebre di S. Pietro in Vincoli, «di bellezza, di superbia e di invenzione» tale da superare «ogni antica imperiale sepoltura», come osservava il Vasari nelle sue Vite de' più eccellenti, architetti, pittori, et scultori italiani da Cimabue insino a' tempi nostri. L'opera, per altro, elaborata dal Buonarroti con aiuti, non fu mai del tutto completata.
Noti sono anche gli scontri tra i due personaggi, entrambi molto sanguigni. Machiavelli nel Principe (capitolo 25) non esitava ad annotare che Giulio II «procedé in ogni sua cosa impetuosamente; e trovò tanto e tempi e le cose conformi a quel suo modo di procedere, che sempre sortì felice fine». Questa veemenza dall'esito favorevole si riversò – oltre che nelle vicende militari e politiche – soprattutto nell'impresa ardua della costruzione della nuova basilica di S. Pietro, i cui lavori furono affidati al Bramante a partire dal 1506 con la demolizione dell'edificio preesistente e con un'imponente opera edilizia, rimasta incompiuta alla morte del papa e costata oltre 70mila ducati d'oro. Anche il Palazzo Apostolico fu ristrutturato (il celebre Cortile di S. Damaso sorse in quel periodo). All'interno di questo complesso entrò in azione un altro vertice della pittura di tutti i tempi, Raffaello, convocato nel 1508 da Giulio II per affrescare il suo appartamento privato. Sono di quegli anni la straordinaria Stanza della Segnatura, quella cosiddetta di Eliodoro per la scena biblica là raffigurata e la sala del l'Incendio di Borgo dove, però, furono attivi anche vari aiuti di Raffaello.
All'Urbinate si deve, poi, quel ritratto che ha immortalato il volto di Giulio II e che ora è conservato alla National Gallery di Londra. Di esso il Vasari scriveva che era «tanto vivo e verace che faceva temere a vederlo, come se proprio egli fosse il vivo». Ma l'acume nello scovare gli artisti più qualificati non si era esaurito con Michelangelo, Bramante e Raffaello. Il papa della Rovere aveva chiamato a Roma anche Andrea Sansovino per arricchire S. Maria del Popolo, chiesa a lui particolarmente cara; l'artista toscano là eresse i monumenti funebri di Ascanio Sforza e Girolamo Basso della Rovere. Potremmo continuare a lungo nella descrizione del mecenatismo di questo pontefice nella città di Roma (fu lui a tracciare la splendida via Giulia). Ma quanto abbiamo segnalato basta a mostrare il nesso intimo che ha unito per secoli la Chiesa e l'arte.

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