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Questo articolo è stato pubblicato il 07 aprile 2013 alle ore 08:22.

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A testimonianza di un periodo di grandissimo fermento, caratterizzato da una creatività diffusa e da un rapido ricambio generazionale, una delle proposte più felici del bel festival «Uovo», svoltosi alla Triennale di Milano, è stato un gruppo artisticamente nato nelle periferie milanesi, e fino a ieri praticamente sconosciuto: si chiama Strasse, e ha riscosso unanimi consensi col suo Drive_in #5, un ingegnoso viaggio in auto dentro l'azione di un immaginario film, una divertentissima corsa notturna per le vie della città, riservata a un solo passeggero-spettatore per volta (www.casastrasse.org). Di fronte alla Triennale c'è un'organizzatrice appostata come una vedetta della mala, che ti dice di avviarti lungo il ponte finché trovi un'auto coi lampeggianti accesi. L'auto, in effetti, c'è, guidata da Francesca De Isabella, l'autista-regista che con l'attrice Sara Leghissa è l'altra giovane ideatrice del progetto. Ti saluta affabilmente, ma ti invita subito a interrompere la conversazione, serve un totale abbandono alle sensazioni.
Parte decisa. Sembra andare un po' a zonzo, poi rallenta di fronte a una ragazza con un lungo cappotto arancione, che cammina lentissima, con aria vagamente assente. È il primo "personaggio" dell'ideale pellicola in cui vieni precipitato, una pellicola che si compone dei luoghi che attraversi, stradette oscure, sinistri anfratti metropolitani, e dei fantasmi dell'immaginario che incontri via via lungo il tragitto. Ecco allora una ragazza che si prepara a entrare in un portone, ecco un ragazzo fermo sul marciapiede in atteggiamento equivoco. L'auto sfreccia attorno a una rotonda, e quando ripassa di lui non c'è più traccia. Nel frattempo la guidatrice ha acceso la radio, che diffonde una musica cinematografica e poi brani del testo di Paul Auster per il film Blue in the face. Davanti a noi appare un'altra auto con un inquietante gatto di plastica illuminato nel lunotto posteriore, e la seguiamo per un breve tratto. Si rivede il ragazzo di prima, che trasporta in bicicletta un mucchio di giornali. Lo ritroveremo più avanti, coi giornali sparsi sull'asfalto.
Dopo essere passati da una zona di spacciatori, ci fermiamo in un parcheggio e qui ritroviamo la ragazza col cappotto arancione, che si illumina il viso con una pila. Facciamo marcia indietro, e tra l'auto e la ragazza appare un cadavere sbucato da chissà dove. Alla fine arriviamo a una spianata accanto alla ferrovia, dove convergono tutti i "personaggi", che però non mostrano la faccia: la nostra auto gira più volte intorno ai tre, e loro si voltano, ruotano insieme a noi. Si viene riportati al punto di partenza, appagati e quasi un po' storditi dall'intelligenza di ciò che si è visto. È evidente che l'uso dell'auto non è un gioco estemporaneo, ma un fondamentale elemento di linguaggio. L'auto è l'equivalente della cinepresa, che inquadra coi suoi fari i dettagli delle varie sequenze. È l'auto che accelerando o rallentando determina il ritmo degli eventi, è l'auto che avvicinandosi o allontanandosi passa dai primi piani ai "campi lunghi" o viceversa.
Drive_in #5 è notevole anche perché resta tutto sospeso, sfumato: le due autrici potrebbero forzare i toni del racconto, renderlo più accessibile, più esplicito. Invece si limitano a evocare delle vicende possibili, lasciando che sia chi osserva a figurarsene gli ipotetici sviluppi. La percezione di una trama – di qualunque trama narrativa? – è una costruzione soggettiva, legata a impressioni personali. Per questo viene imposto un coinvolgimento rigorosamente solitario.
Ma l'aspetto più interessante è il continuo sovrapporsi di realtà e finzione: vedi le insegne rosse di un hotel, e ti chiedi se sia un luogo vero o una scenografia. Vedi un tipo su uno skateboard, e non sai se sia un attore o un passante. A me è capitata una situazione singolare: mentre una delle misteriose figure femminili entrava in un ristorante a Chinatown, ne è uscito di corsa un ragazzo cinese in camicia, che lei si è messa a inseguire. Pareva tutto studiato, invece è stato un puro caso. E allora viene il dubbio che noi stessi non si sia altro che le comparse di un set cinematografico.
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