Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 15 aprile 2013 alle ore 08:43.

My24

Avete mai notato che la voce di uno scrittore attempato sembra giungere da un luogo remoto? Non so come sia invecchiare per un funzionario delle poste o per un assicuratore. Presumo, deprimente. Non come la vecchiaia di un campione sportivo, ma comunque uno schifo.

Ecco, si dà il caso che per un romanziere invecchiare possa essere un'opportunità (se non proprio una festa). Lo scrittore attempato lo riconosci subito. Dal tono dimesso. Dalla rabbia che è venuta meno, con essa il narcisismo. Senti che non ha alcun interesse a impressionarti con trovate a effetto. Non c'è più tempo. Deve terminare il libro prima possibile. È finita l'età della concupiscenza. Ha perso il gusto per la seduzione, o ha capito che il miglior modo di sedurre qualcuno è provare a non sedurlo. Poi c'è il fattore-nostalgia. Un dignitoso rimpianto per un'epoca lontana, morta per sempre, che offre a chi scrive un vantaggio strategico formidabile.

Richard Ford è nato nel febbraio del 1944, più o meno quando i B-52 americani radevano al suolo l'abbazia di Montecassino. Il che significa che veleggia verso i venerabili settanta, così inappropriati all'aspetto giovanile. Ford somiglia a Clint Eastwood: non solo per il paio di splendide rughe, profonde come canyon, che isolano la bocca dal resto del viso, e gli occhi celesti che ti guardano da distanze siderali; la contiguità con Eastwood è soprattutto artistica: tanta scabrezza al servizio di storie semplici, avvincenti, universali.

La trama di Canada (Feltrinelli, 2013, traduzione Vincenzo Mantovani) il suo ultimo libro, è dichiarata sin dalla prima riga: «Prima di tutto parlerò della rapina commessa dai nostri genitori. Poi degli omicidi che avvennero più tardi». Ed è quello che fa: per più di quattrocento pagine. La voce narrante è quella di Dell Parsons. Professore di letteratura di un liceo canadese alle soglie della pensione, Dell ricorda gli eventi straordinari che fecero di lui e di Berner, sua sorella gemella, due adulti in fuga.
Nella prima parte del libro viene rievocata la vicenda rocambolesca che, nell'estate del 1960, spinse i genitori, persone qualunque, a rapinare una banca del North Dakota, mettendo fine alla propria vita e complicando dannatamente quella dei figli. Nella seconda, Dell ricorda la fuga solitaria (la sorella è scappata altrove) in Canada, all'età di quindici anni, e il sodalizio con l'ambiguo Arthur Remlinger, foriero di luttuose disavventure. La terza parte è l'epilogo in cui i nodi vengono al pettine. Il libro mescola – con che scrupolosa perizia narrativa! – trama e meditazione: il cocktail è euforizzante.
Di norma non amo quei critici che si mettono lì con il bilancino a dire cosa funziona e cosa non funziona di un libro. Perché di norma un libro funziona o non funziona anche in virtù dei suoi difetti. Ma è evidente che la potenza drammatica della prima parte di Canada – la vita dei Parsons a Great Falls, Montana, alla vigilia del disastro – tende a sfilacciarsi nella seconda. Così come è palese che l'epilogo sia struggente in modo quasi intollerabile. Ma chi se ne frega: Canada è un gran libro, uno dei più belli degli ultimi anni.

Non saprei dirvi di che parla. Amo pensare che parli della follia di certi matrimoni: anzi no, della follia di tutti i matrimoni. Almeno se si guarda a essi dal punto di vista dei figli. Del resto, che il libro sia una questione tra genitori e figli è dimostrato dal fatto che il narratore, per parlarci del padre e della madre, coniughi sempre al plurale l'aggettivo possessivo. Non dice mai «mio padre» o «mia madre». Dice sempre «nostro padre» e «nostra madre». Tanto che viene il sospetto che ciò che lo lega a Berner, la sorella, più del fatto di essere gemelli, è di aver condiviso per quindici anni genitori simili. Vorrei dirvi che il ritratto che Dell ci offre dei genitori sia pieno di risentimento retrospettivo (ne avrebbe tutto il diritto). E, invece, è colmo di affettuosa, anche se perplessa, comprensione. Un'indulgenza dolente ma anche divertita (ricordate che vi dicevo degli scrittori attempati?). Anche se ciò non gli impedisce di rimarcare quanto folle e insensato sia stato per due individui simili sposarsi e procreare. È stata quella la vera follia, non la rapina in banca. È una cosa che i figli sentono. Vedi tua madre e tuo padre, vedi come si guardano in cagnesco e come fanno di tutto per non capirsi, e comprendi di essere il risultato biologico di un gigantesco errore.

La storia che Ford racconta non è, in senso stretto, una storia comune, in cui è facile identificarsi. Non tutti i genitori, per saldare un debito con una banda di indiani malintenzionati, fanno una rapina in banca. Ma allo stesso tempo la storia narrata da Ford ci riguarda eccome. I tuoi genitori chiusi in bagno per tre ore che bisbigliano per non farsi sentire. Gli umori che cambiano per ragioni imperscrutabili. E soprattutto quella stupefacente ostinata incompatibilità caratteriale che avrebbe dovuto sconsigliare loro di mettersi assieme.

Bev Parsons è un uomo aitante dell'Alabama, un ex pilota dell'aeronautica militare: avvenente, socievole, ciarliero, irresponsabile nel modo leggero in cui solo certi uomini sanno essere. «Era un uomo incapace di credere che le cose, se andavano bene e senza intoppi, non sarebbero andate bene e senza intoppi per sempre». Come ha potuto questo paladino della giovialità e dell'estroversione sposare una tipa come Neeva Kemper, «una donna piccolina, intensa e occhialuta», figlia di colti ebrei di Tacoma che si sarebbero aspettati per lei un matrimonio e un destino del tutto diverso? E come ha potuto lei sposare lui? È che la logica in faccende del genere c'entra davvero poco. Certo è che Neeva ha fatto di quell'errore originario una ragione di vita: «Per lei ogni cosa doveva essere una croce: andare in macchina a insegnare nella scuola di Fort Shaw; i traslochi e le case; le città che non riusciva ad accettare; i faceti e tonti avieri commilitoni di mio padre con le loro stupide manovre per mettersi alla testa del branco; l'essere senza amici. Come ho detto, aveva quella che per qualche tempo lei stessa ritenne una ferma volontà. E deve essere stata proprio quella volontà a farle credere […] che la maggior parte della vita famigliare fosse degna del suo disprezzo». Che non sia questa la ragione per cui Neeva decide di farsi complice dello spericolato delitto del marito, e mandare tutto a puttane? Un istinto autodistruttivo del tutto comprensibile che ben si accorda all'ottusa irresponsabilità del marito. Almeno è quello che pensa il figlio, analizzando retrospettivamente quei fatti. O meglio, è ciò che il figlio ha bisogno di pensare. «Non erano tipi da rapinare una banca. Ma poiché sono pochissime le persone che rapinano banche, mi sembra ragionevole pensare che i pochi che lo fanno vi siano destinati, qualunque idea abbiano di se stessi e di come sono stati educati. Trovo impossibile non pensarla così, perché altrimenti il senso della tragedia mi riuscirebbe insopportabile».

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi