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Questo articolo è stato pubblicato il 12 aprile 2013 alle ore 10:47.
Il 12 e il 13 giugno del 2011, più o meno due anni fa, gli elettori italiani hanno abrogato quattro norme con quattro referendum. Oggi di quei referendum potreste avere due ricordi molto diversi tra loro, secondo la salute della vostra memoria e l'attenzione con cui seguiste la questione. Chi la seguì poco pensa probabilmente che quei referendum sancirono una volta per tutte che in Italia l'acqua è un bene pubblico e che avremmo fatto a meno di centrali nucleari e legittimi impedimenti. Se invece all'epoca la storia vi appassionò, sapete che le cose sono molto più complicate.
Per cominciare, due dei quattro referendum furono sostanzialmente inutili. Le norme sul nucleare oggetto del terzo referendum furono abrogate dal governo Berlusconi un mese prima del voto, costringendo la Corte costituzionale a una vuota e acrobatica riscrittura del quesito. Le norme sul legittimo impedimento, invece, furono parzialmente abrogate prima del voto dalla Corte costituzionale, che poi dovette cambiare in corsa pure quel quesito. Restano quindi i referendum sull'acqua, che però non erano sulla "privatizzazione dell'acqua" – l'acqua era e sarebbe rimasta in ogni caso un bene pubblico – bensì sull'eventuale privatizzazione, parziale o totale, delle società che in alcuni casi, per conto degli enti locali, ne gestiscono la rete e la distribuzione: il servizio.
Il primo quesito abrogò una norma che nel giro di pochi mesi avrebbe obbligato gli enti locali a fare delle gare aperte a soggetti pubblici, privati o misti per decidere a chi affidare in concessione i servizi idrici. Abrogato l'obbligo, tutto è rimasto come prima: la grande maggioranza delle società che gestiscono l'acqua è pubblica, gli enti locali ne sono contemporaneamente proprietari, gestori e controllori. La vicenda del secondo quesito è più intricata: abrogò un comma secondo cui la tariffa per l'erogazione dell'acqua fosse calcolata prevedendo la «remunerazione del capitale investito dal gestore» fino a un massimo del 7%, quota che comprendeva sia i profitti – «non si fanno profitti sull'acqua», dissero i comitati – che gli oneri finanziari derivanti da eventuali prestiti, nonché altri costi non scaricabili sulla tariffa. Politicamente fu per molti una questione impegnativa. Esempio: quel comma fu introdotto nel 1996 dall'allora ministro Di Pietro. Lo stesso Di Pietro che nel 2011 fu tra i maggiori sostenitori dei referendum abrogativi. Altro esempio: dopo i referendum un altro grande sostenitore del Sì, Nichi Vendola, disse che l'abrogazione non avrebbe abbassato la tariffa perché era «indispensabile fare i conti con la realtà»: quel 7% era necessario per coprire il costo dei debiti contratti dalle aziende.
Ne è risultato un pastrocchio. Per mesi semplicemente il metodo di calcolo delle tariffe non è cambiato. Nell'attesa che il Parlamento colmasse il vuoto legislativo ci sono state amministrazioni locali che hanno prolungato le concessioni sulla base della normativa precedente. I comitati referendari hanno lanciato una campagna di «obbedienza civile» proponendo di pagare le bollette sottraendo il 7% abolito dal referendum. A luglio del 2012 la Corte costituzionale ha bocciato alcune norme in materia contenute nel decreto legge "cresci-Italia" del governo Monti, perché contraddicevano la volontà popolare espressa nei referendum. Dal marzo del 2013 le competenze in materia sono state trasferite ufficialmente all'Autorità per l'energia elettrica e il gas, che ha chiesto un parere al Consiglio di Stato. Contenuto del parere: bisogna restituire agli utenti la parte delle bollette pagate relativa alla «remunerazione del capitale investito».
Occhio: i rimborsi riguarderanno al massimo il 7%, pochi euro, e comunque solo le utenze del servizio idrico integrato, uno dei due metodi usati in Italia per costruire le tariffe (che qui restano piuttosto basse, al di sotto della media europea). Inoltre riguarderanno solo i sei mesi successivi all'approvazione dei referendum, da luglio a dicembre del 2011. Questo perché all'inizio del 2013 l'Autorità per l'energia elettrica e il gas ha varato retroattivamente un «metodo tariffario transitorio», sulla base del quale determinare le tariffe dell'acqua per tutto il 2012 e il 2013. Il nuovo metodo in teoria tiene conto della volontà popolare e non parla di remunerazione del capitale investito, ma secondo i comitati referendari introduce lo stesso concetto definendolo «costo della risorsa finanziaria». Intanto che la tariffa transitoria è in vigore, si dovrebbe cercare di individuare un metodo definitivo: ma sapete che cosa si dice in Italia delle cose transitorie.
Le conseguenze per lo stato della rete idrica italiana sono pesanti. Durante la campagna referendaria, una delle poche cose su cui i comitati per il Sì e quelli per il No erano d'accordo era che la vittoria del Sì nel secondo quesito avrebbe determinato «la fine degli investimenti privati nella gestione delle risorse idriche», perché nessun privato investirebbe in un settore dal quale sa di non poter ricavare alcun profitto. Secondo i sostenitori del Sì questo esito era auspicabile, anche perché la legge non vincolava la remunerazione del capitale agli investimenti; secondo i sostenitori del No questo esito avrebbe fermato gli investimenti e basta. Hanno avuto ragione entrambi, e oggi salvo poche eccezioni gli investimenti sono praticamente fermi. Eppure ne servirebbero, e non solo perché avere impianti migliori abbasserebbe i costi di gestione. La rete italiana perde oltre il 30% dell'acqua che trasporta, con picchi del 50% al Sud (!), quanto nessun altro Paese europeo; il 15% della popolazione italiana vive in zone sprovviste di sistema fognario; i depuratori sono pochi e ci sono posti dove – oggi, nel 2013 – il servizio è ancora scandalosamente intermittente. Il presidente dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas ha detto di recente che il settore idrico italiano ha bisogno di 65 miliardi di euro nei prossimi trent'anni. Lo Stato e gli enti locali non ce li hanno. Chi li tirerà fuori, per il momento, non si sa.
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