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Questo articolo è stato pubblicato il 14 aprile 2013 alle ore 08:18.

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Non ci vuol niente a essere tiranni. Chiunque può fondare e gestire un potere dispotico: «siccome per instaurarlo bastano le passioni, chiunque può riuscirci», scrive Montesquieu nel l'Esprit des Lois, Lo Spirito delle Leggi, opera del 1748 pubblicata in forma anonima a Ginevra. Per essere tiranni, infatti, non occorre essere grandi statisti o uomini dalla fine attività politica, il governo dispotico non ha bisogno di misura e mediazione, è tutto concentrato nelle velleità di chi comanda, è semplicissimo, e per questo è così diffuso, perché gli uomini sono di solito molto pigri. Gli uomini dunque preferiscono consegnare la loro libertà nelle mani di uno solo per disfarsi di preoccupazioni e responsabilità, questo è il motivo per cui sulla terra quasi tutti gli Stati, compresa la Francia di Luigi XIV, sono sottomessi a un unico padrone. Costui diventa proprietario delle vite dei sudditi, che a loro volta sono sollevati dalla fatica del discernimento e della decisione.
Ben altra sarebbe la loro sorte se accettassero o favorissero una forma di governo repubblicana e moderata. Dovrebbero contribuire a «combinare i poteri, regolarli, temperarli, farli agire; mettere, per così dire, della zavorra nell'uno, per porlo in grado di resistere a un altro». Una fatica, si legge sempre nell'Esprit, che potrebbe portare a «un capolavoro di legislazione, che il caso compie di rado» o forse mai. E che gli uomini sovente ostacolano, una forma di governo che «di rado si lascia compiere alla prudenza». Tutti parlano bene della democrazia, ma quasi nessuno la vuole. Tutti concordano sulla necessità di una corretta suddivisione dei poteri, ma ci siamo ormai abituati a vedere i detentori di una forma di potere gettarsi avidamente anche sulle altre. In particolare, è molto difficile trovare il potere giudiziario separato dagli altri, l'amministrativo e l'esecutivo. Questa incapacità di articolare i poteri, per Montesquieu è una realtà quasi necessaria nelle desertiche terre dell'Asia, dove l'ampiezza e la monotonia del territorio hanno da sempre favorito poteri assoluti e dispotici. Una grave pecca è invece per gli Stati europei, incapaci di evitare la concentrazione dei tre poteri politici, ai quali va aggiunto anche il potere ecclesiastico o comunque religioso, e tutto questo essenzialmente per pavidità dei sudditi. Infatti, in totale polemica con Hobbes, Montesquieu ritiene che l'uomo allo stato naturale si sarebbe sentito uguale agli altri uomini non nella forza, ma nella debolezza. Così non sarebbe diventato «un lupo in mezzo a un branco di lupi», ma un portatore di pace e amicizia, spinto dalla paura della morte e dalla consapevolezza delle deboli forze del singolo. Hobbes si domandava perché gli uomini vadano in giro sempre armati e chiudano a chiave le porte delle loro case, e si rispondeva che queste erano le conseguenze del primordiale istinto di sottomettere i simili. Ma Montesquieu dichiara che «Hobbes vuol far fare agli uomini ciò che neanche i leoni fanno» (infatti nessun animale attacca i suoi simili senza ragione, casomai ne cerca l'alleanza nel branco). Sarebbe solo con la costituzione delle società che sorgerebbero motivi per aggredire o consorziarsi, l'errore è attribuire alla natura ciò che invece sorge dalla complessità delle costruzioni sociali umane.
Da questa impostazione, che verrà ripresa con sempre maggior pubblicità da Rousseau, deriva la considerazione del diritto come rimedio allo stato di guerra generato dalle rivalità, non naturali ma sociali. In verità qui Hobbes viene ripreso più che contestato, sia Hoobbes che Montesquieu ritengono inevitabile lo stato di guerra tra gli uomini, hanno invece idee differenti sull'origine di tale triste situazione. Infatti l'autore del De cive e del Leviatano riteneva naturale lo stato di guerra, dal quale poteva derivare solo uno Stato assoluto, un tremendo «Leviatano», il mostro biblico citato sia nel Libro di Giobbe, sia nel Libro dei Salmi. Per Montesquieu invece lo stato di guerra non è insito nella natura, ma derivato da una società che ha i tratti della «insocievolezza», così come la descriverà Kant. Da qui la necessità del diritto, e per un buon governo l'assoluta necessità della separazione del potere giudiziario dagli altri poteri. Sembra di sentire l'eco di dibattiti contemporanei, ma Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, nato a La Brède (Bordeaux) nel 1689, morto nel 1755, non vedrà i fuochi di nessuna rivoluzione. Non l'aveva immaginata, la Rivoluzione Francese, che divampò esattamente cento anni dopo la sua nascita. Probabilmente non l'avrebbe approvata nella realizzazione storica, avrebbe invece sottoscritto l'importanza del ruolo dei cittadini nella costituzione del governo repubblicano, così come la cancellazione dei privilegi per clero e nobiltà. Montesquieu per primo aveva svenduto la carica ereditaria di magistrato, per poter continuare a vivere da libero pensatore, un atto di libertà e liberazione.
Oltre all'Esprit des Lois, l'Accademico di Francia è conosciuto per le Lettere Persiane, dove condanna ogni assolutismo, immaginando, secondo il costume del l'epoca, la visita in Francia di Rica e Usbek, provenienti dall'attuale Iran. Si tratta dei grandi temi che stettero a cuore al barone, compresa quella religiosità che da un lato lo portava a criticare l'uso strumentale della fede, dal l'altro lo spingeva a riconoscere la forza di civilizzazione del Cristianesimo e a definire tutte le società civili «nient'altro che un'unione spirituale», dotate di "anima universale". Troppo credente per i "filosofi", troppo deista per i cattolici, Montesquieu non si preoccupava del giudizio altrui, così come del lungo naso che lo accompagna in tutti i ritratti. Dichiarava la sua anima «appassionata di tutto», si sentiva incolpevolmente felice, ovunque si trovasse, tanto da chiosare: «non chiedo altro alla Terra che continuare a girare attorno al suo asse». Chi, tra gli antichi e i moderni, gli atei e i credenti, ha potuto avere questo unico, e soddisfatto, desiderio?

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