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Questo articolo è stato pubblicato il 14 aprile 2013 alle ore 08:18.

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Accade di frequente che genesi, natura e significato di un processo culturale vengano raccontati in modi assai diversi tra loro, ma ugualmente legittimi: e questo, in fondo, non deve sorprendere. Quale fosse la natura del Rinascimento, quali i suoi limiti cronologici e quali il suo significato generale sono domande le cui risposte variano secondo i luoghi che si considerano (Firenze, Roma oppure l'Europa settentrionale), i fenomeni su cui si pone maggiormente l'accento (la cultura umanistica, quella artistica o quella scientifica) e i connessi fenomeni socio-politici (il passaggio dai comuni alle signorie, le tendenze religiose riformatrici o la nascita della produzione capitalistica). E non meno controversi sono la genesi, la natura e il significato di fenomeni culturali come il Romanticismo, l'arte astratta o il jazz.
Le cose, però, non sono sempre così complicate. In particolare, il cruciale passaggio che, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, ha riguardato prima la psicologia e poi le altre scienze umane e sociali è piuttosto chiaro nella cronologia, nelle modalità e nel significato. Dagli anni Venti e sino alla fine degli anni Cinquanta, la psicologia fu dominata da un approccio empiristico allo sviluppo cognitivo che fu condiviso dalle due concezioni dominanti del periodo: il comportamentismo e il costruttivismo epigenetico piagetiano. Secondo queste due concezioni, nello stato iniziale dello sviluppo cognitivo la struttura della mente è estremamente povera, se non una vera e propria «tabula rasa». Ciò che noi apprendiamo, insomma, dipende in modo pressoché esclusivo dall'ambiente cui siamo esposti. E a esiti simili giungeva nello stesso periodo anche l'antropologia culturale anglosassone: le tesi psicologiche di matrice empiristica, secondo cui la mente è plasmabile e i suoi contenuti dipendono solo dalle esperienze acquisite, si accordavano infatti bene con le tesi di quella scuola, secondo la quale le culture differiscono radicalmente tra loro, e tutti i fenomeni di rilievo nelle società (e dunque anche le differenze tra le diverse culture) sono integralmente spiegabili dall'ambiente culturale locale. In questa prospettiva, radicalizzando l'impostazione di Franz Boas, Ruth Benedict e Margaret Mead sostenevano che la mente umana è libera da influenze biologiche, e fin dall'infanzia viene interamente plasmata da fattori storici, culturali e ambientali.
Queste tesi compongono il nucleo fondamentale della concezione che gli psicologi evoluzionisti chiamano oggi «modello standard delle scienze sociali». Negli ultimi decenni del ventesimo secolo, tuttavia, il clima teorico è notevolmente mutato. Alcune vicende teoriche hanno dato infatti luogo alla cosiddetta «svolta cognitiva»: il declino del comportamentismo e l'ascesa della psicologia cognitivista, la teoria razionalistica e innatistica del linguaggio proposta da Chomsky, la rivalutazione della prospettiva darwiniana da parte della sociobiologia e della psicologia evoluzionistica nonché, sul fronte filosofico, l'affermazione delle concezioni funzionalistiche della mente proposte da Putnam e Fodor. E così, negli ultimi anni, il peso attribuito ai fattori biologici e naturali nella determinazione dei nostri comportamenti individuali e sociali è molto aumentato rispetto al peso attribuito ai fattori culturali. E ciò ha fatto sì che nelle scienze umane e sociali si sia assistito alla forte affermazione di proposte teoriche di matrice naturalistica.
Ora, a raccontare genesi e fortuna del paradigma naturalistico-cognitivo, appare il primo di una coppia di volumi di Riccardo Viale, che ne è stato uno dei maggiori promotori nel nostro paese (Methodological Cognitivism: Mind, Rationality, and Society, Springer, Dordrecht 2012). Si tratta di un volume importante, perché si inserisce in modo originale e informato nel filone di critica del modello standard delle scienze sociali, con l'intenzione di contribuire al programma di naturalizzazione delle scienze umane, e più in particolare della teoria della razionalità e del l'economia cognitiva. In questo volume, in particolare, Viale difende una concezione che «può essere considerata un'evoluzione dell'individualismo metodologico, sia perché si propone di neutralizzare alcune delle difficoltà epistemologiche e metodologiche incontrate da quella concezione sia perché si radica più solidamente nella più accreditata teoria scientifica dell'azione sociale, ovvero la scienza cognitiva». In questa prospettiva, dunque, le scienze umane e sociali divengono branche delle scienze cognitive della mente.
Al fine di chiarire la genesi del paradigma naturalistico-cognitivo, Viale discute il contesto generale da cui prese avvio la scienza cognitiva, tornando sui dibattiti che in filosofia della scienza videro protagonisti Popper e Lakatos (un tema su cui si diffonderà maggiormente nel secondo volume di quest'opera) e discutendo di alcune delle tematiche classiche della filosofia della mente, con particolare riferimento alle proposte di Fodor, Kim e Churchland. Ma il nucleo fondamentale di Methodological Cognitivism è costituito da uno specifico programma di ricerca che si propone di sviluppare i fondamenti della razionalità sociale, con particolare riguardo al campo economico. In questa prospettiva, Viale discute dell'interazione fra economia comportamentale e scienze cognitive (e quindi di neuroeconomia comportamentale), un tema di grande importanza anche alla luce degli studi di Simon, Tversky e Kahneman. La discussione poi tocca la sfera della politica, della dimensione cognitiva della cultura e delle sue implicazioni epistemologiche: e qui è importante il riferimento agli studi di Dan Sperber.

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