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Questo articolo è stato pubblicato il 17 aprile 2013 alle ore 10:43.

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Ode al selvaggio Marlon Brando, proto-ribelle per eccellenza, molto più figo e temerario di 'sti anemici hippie. Così (gennaio 1976) si apriva il primo numero di Punk, rivista newyorchese "fai da te" destinata a intercettare – per dirla con James Wolcott – «gli ululati di un nuovo zeitgeist».

Lo spirito del tempo in questione era quello che si andava materializzando in jeans e giubbotti di pelle nera negli angoli più sordidi di Manhattan, una controcultura irriverente che presto avrebbe travalicato quei confini per imporsi ovunque. Energie e istinti trovavano ospitalità in locali come il CBGB, armavano gli strumenti di una nuova generazione di artisti (Ramones, Television, Blondie, Talking Heads), spingevano centinaia di giovani alla ricerca di inediti codici espressivi. Di quel fermento, Punk è stata la voce più acclamata. Governato da un triumvirato di ragazzi cresciuti a Cheshire, nel Connecticut (John Holmstrom, Ged Dunn e Legs McNeil), il magazine mischiava il linguaggio dei fumetti, dei graffiti, delle fotostorie e di un'estetica horror da B-movie. L'avventura finì nel 1979 con il numero 18, ultima tappa di un'epopea ripercorsa ora da un volume pubblicato negli Stati Uniti (The Best of Punk Magazine, HarperCollins). Ci furono tentativi di riaccendere la miccia, ma ogni rivoluzione ha il suo tempo. E il tempo di Punk era inevitabilmente passato.

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