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Questo articolo è stato pubblicato il 19 aprile 2013 alle ore 12:11.

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Gli uomini vengono sepolti in luoghi chiamati cimiteri, i libri in posti chiamati Remainders. Murati nei sottoscala delle librerie, imboscati nei reparti delle grandi occasioni o improvvisati sulle sudice tavole delle bancarelle, sopravvivono sinistri obitori editoriali dove – dopo esistenze brevi e infelici – finiscono la maggior parte degli oltre quattrocento titoli pubblicati ogni giorno. Immergersi in queste catacombe è l'incubo di ogni scrittore, una discesa agli inferi, un esorcismo doloroso ma inevitabile. Si scendono le scale con passo esitante, si arriva davanti allo scaffale del gabinetto degli orrori e si tace, sopraffatti da un silenzio sepolcrale. Poi, dai pochi dettagli in possesso (colore copertina, grafica collana, formato volume) si procede al mesto rito del riconoscimento della salma. L'occhio fruga lo scaffale, il dito scorre le costole dei volumi; la speranza è una sola: non trovare nessuno dei propri cari in quella fossa comune.

E invece è proprio lui. La nostra ultima fatica, la fragile creatura cui abbiamo dedicato anni della nostra vita, nata da pochi mesi e già nel reparto del metà prezzo. Misero conforto trovare nel loculo adiacente, nell'infamante sezione «usato non usato», l'ultimo romanzo di un collega trombone. Ma chi alimenta questo sordido traffico? Chi rifornisce sottobanco questo squallido mercato nero?

Sono i metronotte del gusto, i professori con e senza cattedra, i Dottor Jekyll e i Mister Hyde che di giorno recensiscono i vostri romanzi e di notte scrivono i loro, coltivando inconfessabili ambizioni di rivalsa. Ebbene sì, sono proprio loro: i critici che si rivendono i libri. Basta farsi un giro nei reparti dell'usato per rendersi conto che gran parte del sommerso è alimentato dalle redazioni dei giornali e delle riviste. Non è mistero né peccato, perché i trafficanti di libri sono tanto impudenti quanto lo sono i loro adulatori, per cui non si curano neanche di strappare le pagine con le untuose dediche che gli scrittori indirizzano loro. Semplice autodifesa per non soccombere sotto montagne di carta o sottile crudeltà? Certo è che quando capitano tra le mani queste rarità, il sommo divertimento è sfogliare i frontespizi coi nomi dei destinatari e confrontarli con le firme! Si possono tracciare le rotte della piaggeria lungo le quali naviga a vista l'editoria italiana. Alcuni di questi contrabbandieri sono attenzionati da tempo; malgrado ciò gli uffici stampa continuano a svenarsi in corrieri, buste e francobolli per recapitare vagonate di romanzi nella vana speranza di una recensione (che non smuoverà di una copia le vendite). Nonostante ciò, gli scrittori continuano a firmare con servile rassegnazione pile di libri da spedire.

Tuttavia, quello delle dediche, oltre che una triste simonìa, è anche un alfabeto cifrato. A scanso di malintesi tra le categorie e in vista di una ritrovata amicizia tra i popoli (quello degli scrittori e quello dei critici), converrà approfondire*. Una volta ho trovato un mio libro con tanto di scellerata dedica nel padiglione della vergogna di una nota libreria romana.

Come il figlio di una famiglia decaduta che riconosce in vetrina i gioielli impegnati al monte di pietà, non ho potuto fare a meno di ricomprare il monile per riportarlo a casa. Quando ho incontrato per caso il critico che l'aveva rivenduto, con spudorato candore gli ho chiesto: Perché l'hai fatto? «Ma perché siamo inondati di libri, non sappiamo più dove metterli!». Va bene, ho detto, ma potevi almeno donarlo a una scuola, a una biblioteca! Il critico ha scrollato le spalle e se n'è andato infastidito. Allora sono tornato a casa. Ho preso tutti i suoi libri e li ho portati all'ammasso. Un commesso li ha pesati su una bilancia: «5,4 kg. Posso darti 4 euro. Non un centesimo di più!». E pensare che era un critico di valore.

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