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Questo articolo è stato pubblicato il 21 aprile 2013 alle ore 08:18.

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Le discussioni interdisciplinari suonano in genere affascinanti, ma spesso sono un'attrazione irresistibile per tuttologi di varia specie. Condizione necessaria per tali discussioni dovrebbe essere che i partecipanti abbiano una conoscenza approfondita di almeno una disciplina! A questo riguardo il Gruppo 2003 dovrebbe essere una buona garanzia: esso include solo gli studiosi italiani classificati dall'organizzazione «Web of Science» tra i più visibili a livello mondiale in termini di citazioni scientifiche (Highly Cited Scientists), il cui numero totale in Italia tra tutte le discipline non raggiunge un centinaio.
L'incontro prevede presentazioni da parte di Guido Tabellini (economista), Giacomo Rizzolatti (neuro-scienziato), Giorgio Parisi (fisico), moderato dal sottoscritto (economista, seppur abbastanza eretico).
Il tema è sicuramente al centro non solo dell'economia ma di buona parte delle scienze sociali. Come decidono gli uomini (se decidono)? E qual è il risultato collettivo di tali decisioni e dei conseguenti comportamenti?
Consideriamo la prima domanda. Ad un estremo sta la versione «forte» del l'«individualismo metodologico» che buona parte degli economisti sottoscrive. Non solo gli individui sono «ben formati» nelle loro capacità cognitive e di elaborazione delle informazioni, ma date (coerenti) preferenze, «rispondono bene» in una qualsiasi condizione ambientale nel perseguimento dei propri interessi. Se rispondono perfettamente bene, si può dire che letteralmente massimizzano la funzione obiettivo (per esempio, l'utilità oppure i profitti). Tabellini parlerà di «risposte appropriate», alle quali – immagino – è permesso discostarsi dalla risposta ottima, ma quest'ultima rimane il riferimento centrale (negli ultimi tempi, una parte significativa della cosiddetta economia comportamentale si è focalizzata sulla natura e rilevanza di tali scostamenti).
Va notato comunque che se la risposta cognitivo/comportamentale è «appropriata», non c'è bisogno, per così dire, di «aprire la testa» del decisore. Basta conoscere l'ambiente nel quale la decisione si colloca, l'informazione cui ha accesso, gli obiettivi che vuole perseguire, ed è allora possibile prevedere con buona approssimazione quello che il decisore farà. A questo riguardo, una parte significativa della psicologia cognitiva e della neuropsicologia sostengono più o meno l'opposto: senza una conoscenza dettagliata dei processi cognitivi non è possibile prevedere le decisioni, non importa quanto accurata sia la conoscenza del contesto. L'intervento di Rizzolatti andrà in questa direzione ed oltre: i comportamenti sono subiti, nel senso che sono largamente determinati da «memi», potenti entità psicologiche cognitivo-comportamentali che certo evolvono, ma che poi dirigono in misura significativa i processi decisionali. E lungo questa via non solo si perdono i pilastri di qualsiasi individualismo metodologico, ma la stessa nozione di libero arbitrio diviene elusiva.
Incidentalmente, voglio ricordare che anche prima di giungere a una nozione di decisione subita, è possibile discostarsi radicalmente dal paradigma della scelta (quasi) razionale. Molti psicologi (ed anche alcuni economisti lontani dall'ortodossia come il sottoscritto), partono dalla considerazione che in mondi complessi (e spesso in evoluzione) come quelli con i quali gli uomini hanno tipicamente a che fare – dentro e fuori l'ambito economico – cosa sia la «scelta razionale» è di difficile definizione anche in linea di principio. Allora studiare «come funziona la testa» è fondamentale per capire gli effettivi processi decisionali. E i risultati cominciano ad arrivare: per esempio il fatto che noi funzioniamo largamente sulla base di euristiche che non hanno niente a che vedere con «deviazioni dalla razionalità», ma piuttosto sono artifici cognitivi e comportamentali che offrono risposte robuste in ambienti complessi e spesso mal compresi (tra gli altri si vedano i lavori di Gerd Gigerenzer e colleghi del Max Planck di Berlino) e di molti economisti «evolutivi».
Comunque, dati i processi decisionali, come si combinano tra loro a livello collettivo i comportamenti individuali?
Di nuovo troviamo ad un estremo il paradigma dominante degli economisti. E la risposta è: equilibrio. Esso può essere fondato sulla credenza che un numero alto di agenti piccoli vi convergano via aggiustamenti nelle quantità che scambiano e come conseguenza nei prezzi (dico volutamente credenza, perché i risultati formali sulla convergenza di tali processi scarseggiano, mentre abbondano quelli negativi…). Oppure, può essere un equilibrio tra agenti che interagiscono strategicamente, per i quali nessuno ha incentivo a cambiare, dati i comportamenti degli altri giocatori. In ogni caso per la maggioranza degli economisti «equilibrio» è una nozione interpretativa chiave, e con questa anche la congettura che le osservazioni empiriche vadano generalmente considerate come fenomeni di equilibrio.
Fuori dall'economia e lontano dalla razionalità olimpica, è più facile studiare fenomeni nei quali l'ordine collettivo, quando appare, è una proprietà emergente dalle interazioni locali tra molteplici entità ben lontane da norme di comportamento razionale (dagli alveari agli stormi, alle dinamiche collettive del cervello rispetto ai singoli neuroni). La congettura affascinante che si è iniziato a esplorare è che gli strumenti utilizzati per analizzare questi fenomeni possono essere proficuamente applicati anche all'analisi di fenomeni economici come le bolle speculative sui mercati finanziari, «contagi di opinione», meccanismo di coordinamento (o no) sui mercati. Su questa linea interpretativa Giorgio Parisi presenterà l'applicazione alle scienze sociali di una formalizzazione che va sotto il nome di «vetri di spin».

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