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Questo articolo è stato pubblicato il 28 aprile 2013 alle ore 08:20.

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Naso affilato come la sua mente, Marcel Duchamp incontra Calvin Tomkins, il giornalista che da lui ha appreso la passione per l'arte contemporanea. La pubblicazione dei loro brevi «dialoghi del pomeriggio» è un regalo prezioso. Vediamo i due giocare con le parole e capiamo che Duchamp aveva una passione divorante ma inconfessabile per il mestiere che pretendeva di avere abbandonato. Per questo, non voleva si parlasse dei ready made come del suo contributo più importante. «Quando li ho fatti – sosteneva – non era certo con l'idea di produrne migliaia. Non ho mai inteso venderli. Fu davvero un gesto per mostrare che si poteva fare qualcosa senza avere, come retropensiero, l'idea di farci sopra dei soldi. Non li ho mai venduti. Non li ho nemmeno mai esposti».
Per maggiore rispetto dell'arte stessa, asseriva di avere smesso di praticarla quando si era reso conto che non era che un'espressione tra le altre, e non quella che gli piaceva di più. Non era vero e ora lo sappiamo, visto che spese molti anni a completare in segreto l'installazione ambientale Etant Donnés (1946- 66). Il fatto è che non voleva pressioni commerciali. Cercava faticosamente un diretto coinvolgimento dello spettatore, giacché è questa relazione a fare l'opera. Per questo aveva dedicato attenzioni, riflessioni teoriche, anni di lavoro al dipinto su vetro La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche , dichiarato definitivamente incompiuto nel 1923 e iniziato circa dieci anni prima. Il tempo lungo era il suo pane. Ciò che gli interessava raccontare e che provò a condensare in quelle sole due opere (tutte le altre possono esserne infatti considerate delle preparazioni) erano temi grandiosi e da trattarsi con voluto «ritardo»: l'idea di movimento; l'eros come sua fonte, in quanto ciò che motiva il perpetuarsi della vita; la storia della pittura come qualcosa che si associa all'eros stesso, descrizione dell'amore fisico e psichico e di ogni legame tra esseri e cose; l'importanza della tradizione occidentale nel costruire immagini e la sua peculiarità nel ritrarre soprattutto corpi.
Parte delle sue idee vengono ora a riproporsi in molti saggi. Tra questi Federico Vercellone, nel libro intitolato Dopo la morte dell'arte. L'estetologo della scuola di Torino passa in rassegna in poche pagine l'itinerario che va da Hegel all'arte digitale, cioè dalla teoria per cui l'arte avrebbe toccato e abbandonato il suo massimo punto di espressione, fino a una nuova estetica per la quale l'artista non crea immagini illusionistiche, ma ambienti e miti.
Malgrado tutto ciò che se ne dice, «di arte abbiamo oggi molto bisogno», cioè di opere che recano «tratti che venivano tradizionalmente ascritti al mito». L'immagine resta protagonista e anzi diventa un fulcro attorno al quale è possibile pensare nuovi mondi, superando il sospetto che, contro di essa, hanno gettato anche i critici della «società dello spettacolo», da Theodor Adorno a Guy Debord, da Baudrillard a Maffessoli. Queste visioni sembrerebbero essere una spinta iconoclasta non dissimile a molte altre nella storia dell'uomo: è dalla Bibbia e da Platone che condanniamo ciclicamente chi forma icone, siano esse il Vitello d'oro, scenografie illusionistiche o una pop art che rende sacra la merce e rinverdisce così lo spettro dell'idolatria. Vercellone sottolinea come la perdita di «saper fare» e al contempo del valore della bellezza aiutino il rinnovarsi della condanna. Ciò che il filosofo trova di rilevante nell'arte contemporanea, seguendo anche le orme di Arthur Danto, è la tendenza a creare opere immersive, non centrate sull'illusionismo del mondo esistente, come al tempo di Zeusi e Parrasio, quando le mosche dovevano scambiare la frutta dipinta per frutta vera. Oggi l'opera deve e può farci sperimentare e interagire. Tutta una nuova scuola di teorici sta studiando l'immagine e i suoi effetti. I cosiddetti Visual Studies , con le diverse ma convergenti posizioni di Hans Belting e Georges Didi-Hubermann, tendono a fare confluire la storia dell'arte con una più vasta storia delle immagini, cioè una scienza che studia i media, la pubblicità, la politica, insomma un'antropologia della visione che non considera l'immagine artistica come la più importante. Ma di questa, però, restano gli sviluppi in un senso diverso e più complesso, come matrice di percezioni inedite e di luoghi in cui si cerca un'identità collettiva. L'arte allora non sarebbe una copia della realtà ma una fuga dall'apparenza e verso un'altra realtà. Anche grazie alle nuove tecnologie (ma in effetti non solo in relazione a quelle), opere come il Weather Project di Eliasson (2004), il fagiolo specchiante di Anish Kapoor che riflette lo skyline di Chicago (Cloud Gate, 2004-6), le Genetic Images (1993) dell'artista digitale Georges Sims, inventano dei mondi paralleli, mettono in primo piano lo spettatore, generano una mitologia collettiva toccando i grandi temi della storia. Marcel Duchamp, dunque, quello vero, aveva visto lontano.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Calvin Tomkins, Marcel Duchamp:
The Afternoon Interviews, Badlandsunlimited, New York,
pagg. 96, sip; www.badlandsunlimited.com
Federico Vercellone, Dopo la morte dell'arte, il Mulino, Bologna,
pagg. 158, € 16,00

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