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Questo articolo è stato pubblicato il 28 aprile 2013 alle ore 08:18.

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«Avevo 15 anni, e con i miei genitori stavo tornando negli Stati Uniti. Prima del volo, cercavo un libro per accompagnare le lunghe ore del viaggio verso casa. Nell'edicola, piena di giornali, gialli e romanzi rosa, ho trovato il libro che avrebbe cambiato definitivamente la mia vita. La cassiera sorrideva quando le ho presentato I fratelli Karamazov. Non è roba da quindicenni, né da lettura distratta sui voli intercontinentali…». Molti, come me, spalancheranno gli occhi di fronte a questa confessione autobiografica: un ragazzo quindicenne, per di più americano, che non un secolo fa, ma nel 1993 fa un intero viaggio tra Inghilterra e Stati Uniti affascinato da un'opera così ardua e alta.
Eppure, è da allora che Jonah Lynch, il ragazzo in questione, inizia un percorso di «decostruzione e ricostruzione» che lo conduce non solo a incontrare Dio in modo autentico, ma anche a diventare sacerdote (attualmente ha 35 anni ed è rettore del seminario della Fraternità S. Carlo a Roma). Il libro che ora scrive, accompagnato da una prefazione sbarazzina ma partecipe del comico Paolo Cevoli, è da un lato una sorta di rilettura personale di questa storia iniziata all'edicola dell'aeroporto di Heathrow e approdata alla meta romana e, d'altro lato, è un dialogo con tutti quei ragazzi che si trovano sul punto di partenza o si sono già inoltrati, con esiti dubbi e forse negativi, sul sentiero stretto delle domande ultime di senso riguardo all'essere e all'esistere.
Là, naturalmente, il tema della fede s'incrocia con tante altre questioni che in questo libro vengono dipanate, nello sforzo di impedirne ogni dicotomia repulsiva, evitando così «la tentazione di scindere in due il mondo: da una parte il mondo della scienza e della razionalità, dall'altra il mondo della creazione e della fede». Per questo, il sottotitolo reca questa nota esplicativa: «Improvvisazione libera su Dio, la musica, la scienza e l'amore», ma anche sul dolore, sulla crisi, sulla morte, sulla Chiesa, su Cristo, sempre attingendo alla propria vicenda di giovane turbato e poi trasformato, col seme delle domande e con molti fiori di risposte.
Dopo quel testo capitale dostoevskiano Lynch ha letto molto altro e nelle sue pagine ammiccano le parole di Solženicyn e di Claudel, di Tolkien e di Hugo, di Eliot e di Esopo e persino di Eraclito e dei nostri Pirandello e Buzzati. C'è anche la dolce e intensa storia del barbiere Jayber Crow dell'omonimo romanzo di Wendell Berry e del suo amore impossibile e supremo per Mattie. C'è la musica, certo, dei Doors, dei Moody Blues e dei Beatles, ma anche Dvorvák con la sua celebre IX Sinfonia Dal Nuovo Mondo. Ma tutto questo intarsio di rimandi si colora dell'esperienza personale, un'avventura possibile anzi, secondo l'autore, auspicabile per tutti, perché essa conduce a non rinunciare a nulla, ma a trasfigurare tutto, a «cantare ogni cosa», come recita il titolo. Ed è proprio intitolato Il canto della vita, anche l'altro libretto che accostiamo a quello di Lynch. Qui ci imbattiamo, invece, in un vecchio filosofo, teologo, psicanalista e poeta brasiliano, l'ottantenne Ruben A. Alves, l'inventore della locuzione «teologia della liberazione», duramente perseguitato dal regime militare che incombeva su quel grande paese negli anni Sessanta. Di confessione protestante, Alves celebra in queste pagine, sia pure da un'angolatura differente, la gioia del credere. Essa traspira da ogni poro della pelle della sua esistenza e si intravede in filigrana ad ogni sua riga: non per nulla le citazioni sono esclusivamente bibliche e ogni capitoletto finisce in una preghiera dolce e appassionante.
Anche qui sfilano i grandi temi dell'esistere, dal desiderio alla nostalgia, dall'assenza all'amore, dal dolore al sorriso, dal corpo alla morte e all'oltrevita, ma essi vengono presentati in modo contemplativo da un anziano sapiente che vuole essere soprattutto «pastore di speranze». Le scarse evocazioni personali, come quella del rosmarino del giardino la cui talea fu piantata dal padre del poeta, si dissolvono nell'alone della fede, così come i segni concreti del paesaggio brasiliano – i manghi, le ciliegie tropicali, il rosso dei pappagalli, i canti popolari, i berimbau, strumenti musicali che accompagnano le danze, e così via – diventano simboli del divino e segni di fiducia. Certo, non si zittisce l'interrotto respiro di sofferenza che sale dalla terra al cielo né si ignora che «i militari possiedono bombe per distruggere dieci volte il nostro mondo», eppure l'appello è a tener fisso lo sguardo sul bene dell'umanità, sulla bellezza del cosmo, sulla forza della risurrezione.
E allora l'invocazione diventa: «Aiutami a esultare nella tristezza da cui nasce la nostalgia per il regno di Dio e a detestare la tristezza di quelli che hanno occhi solo per contemplare se stessi. E che mai manchi ai tristi del tuo regno il dolce sacramento del sorriso di Dio». Abbiamo voluto, così, proporre questa volta due testi «lievi». In italiano abbiamo anche il sinonimo, che nasce dallo stesso etimo, di «leggero»: tuttavia, quest'ultimo può anche rimandare a qualcosa di fatuo, superficiale, sciocco, vano. La «lievità» autentica è, invece, un sollevarsi dell'anima e persino del corpo verso l'alto, è un ascendere oltre la polvere verso un orizzonte più limpido e puro. I due libretti che abbiamo presentato sono dotati di questa lievità che, alla fine, è anche «leggiadria» (un termine che ha la stessa radice di «leggero» e di «lieve»). È quella «sostenibile leggerezza (o lievità) dell'essere», ben diversa dall'«insostenibile» e tormentata «leggerezza» del medico Tomáš e della sua amata Tereza del celebre romanzo di Kundera. In tempi così pesanti e materialistici, come quelli che stiamo attraversando, il canto di Lynch e di Alves può diventare un antidoto benefico sia per giovani sia per adulti.

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