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Questo articolo è stato pubblicato il 28 aprile 2013 alle ore 17:01.

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Sono molti e autorevoli gli studiosi che a partire dal secondo dopoguerra si sono dedicati a Porta, colui che, giovane, e diminutivamente, amava definirsi «el lava piatt» del versificatore vernacolo Domenico Balestrieri. Su una linea continua, e fatte salve le reciproche diversità, potremmo disporre Natalino Sapegno, Dante Isella, Pietro Gibellini, Guido Bezzola, Gennaro Barbarisi, Franco Brevini. Nel suo ultimo libro, Divora il tuo cuore, Milano. Carlo Porta e l'eredità ambrosiana, Mauro Novelli si sforza di trarre da tutti costoro un profitto discreto, volta a volta accogliendo, glissando o respingendo con parole aperte i rispettivi lasciti (l'idea iselliana di una funzione espressionista, che giusto da Porta s'inizierebbe, è forse il caso più lampante di questi respingimenti).

A colpo d'occhio il volume accusa un andamento bifido, qui analitico e là tematico, compendiario, enciclopedico; ma trova un massimo di originalità penetrante quando il discorso s'indirizza lungo i due assi privilegiati di ricerca. Vale a dire lo specifico contributo che Porta ha recato, già a inizi Ottocento, nell'edificazione di una mitografia ambrosiana volta al positivo; quindi la maestria di chi, utilizzando metri plurimi, pure sapeva congegnare personaggi e storie che si sarebbero confitti nella mente di lettori-uditori sparsi per una città in travaglio, sospesa tra età napoleonica e restaurazione asburgica.
Quanto al primo punto, il transito è inequivoco. Dall'immagine del milanese altero e ghiottone, buseccone, che popolava tante opere letterarie sin dal Rinascimento, si passa alla celebrazione di un'operosità orgogliosa e autosufficiente, destinata a innervare sul fine secolo l'ideologia semirealistica della "Capitale morale".

Persino riguardo alle Muse ispiratrici il conflitto è evidente: sulla dea Murcia, gran maîtresse della poltroneria, del sentimento arcadico e del bamboleggiamento classicista, prevale la "dea rabbiada" del Porta, incline alla satira e al comico basso, alla fustigazione del devozionismo ipocrita. Non già che i ceti di mezzo tra popolaccio e aristocrazia, ormai all'avanguardia delle trasformazioni, siano adeguatamente rappresentati nell'opera del milanese. Se ne respira però il carattere, l'eticità in divenire; fuori della quale non s'intenderebbe neppure un'icona perturbante come Ninetta, pescivendola in rovina e poi prostituta, ma senza remissione di colpa, decisa a vivere di sé, in piena indipendenza.

Sta qui la riforma mitografica promossa dal Porta, il suo senso di appartenenza a una nuova Milano. È poi vero che i valori di cui ci parla hanno un'applicazione topograficamente ristretta, municipalista. I motivi del lungo oblio che colpì il poeta tra secondo Ottocento e ventennio mussoliniano non vanno individuati soltanto nell'oscenità, nella derisione antireligiosa, antinobiliare, o nel rifiuto di raffigurare il ceto subalterno come entità aprioristicamente buona. Estraneo alla triade Dio-popolo-famiglia, egli era anche al di qua di un'idea nazionale. Sospeso tra Lumi e liberalismo romantico, di questi rifiutava sia gli esiti cosmopoliti sia la retorica patriottica, per meglio ancorarsi alle scaturigini sacre e borghigiane del proprio essere: «Prometti e giuri col vangel in man / de amà prima de tutt chi m'ha creaa, / e subet dopo stò me car Milan».

Porta non era un vate, un poeta forgiatore di destini collettivi; era però un letterato ricolmo di pulsioni civiche. E da questo civismo, affacciato ai principi pragmatici di una borghesità sorgente, deriva anche la sua fabulazione pionieristica, sedotta dal vero sino a estremi di crudezza spregiudicata. Novelli, su questo secondo punto, è particolarmente efficace: i due artifici maggiori della narratività portiana sono da individuare, da un lato, nel cosiddetto «fregolismo», o «ventriloquismo», in quanto attitudine a vestire panni altrui, a parlare con voce d'altri, giusto attitudini ben assestate presso la tradizione vernacola precedente. Dall'altro nelle cornici introduttive, nelle apostrofi reiterate, dove si stabilisce il contatto con una platea di uditori che si presuppone viva e dialogante. Siamo, è bene dirlo, in uno stato di fusione indistinta, originaria, tale da comprendere versificazione, moduli recitati e temporalizzazione discorsiva che preannuncia la parola pienamente romanzesca.

A mostrarsi è insomma quel «radicale di presentazione scenico», che presiede alle prime stagioni portiane e sfocia nelle plastiche autonarrazioni del Giovannin Bongee, della Ninetta, del Marchionn.
Per questa via il critico quarantenne proietta il suo poeta in un orizzonte decisamente nuovo: inserisce nel solco della letteratura maiuscola colui che grandeggiava bensì, però dal margine, soddisfatto di un municipalismo dialettale che faceva serie a sé. Quindi ipotizza una connessione transespressiva, transgenere, che non contempla solo rimandi al Novecento lirico: Porta-Tessa; ma impegna Manzoni romanziere, e magari Testori, analogamente bilicato su un margine incerto, dove parola scenica, moduli predicatori e narrazione si confondono (basta pensare al capitolo primo del Dio di Roserio, poi espunto, o a una coppia titolistica come La Ninetta del Verzee - La Gilda del MacMahon).

È una sequenza storiografica interessante fuor di dubbio, ma da maneggiare con cura. Si fonda in sostanza su due modelli difettivi: un protagonismo civico ancora oggi necessario (no caste privilegiate e parassitarie, no populismo, no resa a confessioni ipocrite), però in assenza di uno sguardo generale. E una grana narrativa quanto mai fine, ma priva di un vero patto romanzesco, orfana dell'istituto più strategico che la modernità letteraria abbia concepito: la figura del narratore, colui che media tra individuo leggente e universo immaginato. Con il suo rifondere valori fonici cittadineschi e retoriche fabulatorie, exempla da pulpito e intrattenimento di piazza la linea portiana non cessa di sedurci, ma rimane testimonianza di civiltà piccola, ancora da farsi. Concediamo pure che ha germinato, rendendosi ausilio per le proposte altrui; però non è di qui che procede l'evo maggiore.

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