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Questo articolo è stato pubblicato il 28 aprile 2013 alle ore 08:22.

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Alla Scala è in scena il raro «Oberto», opera n.1 del compositore di Busseto, che ritorna per la terza volta a Milano, nel teatro che per primo ne accolse i vagiti. Sono vagiti robusti, netti nel segno, dove Verdi ventiseienne mostra scanditi tutti i tratti del suo profilo di compositore: più vicino a Donizetti, certamente, che a Bellini. E con un gran desiderio di non imparentarsi con Rossini. Interessante averlo eseguito nel giro di pochi mesi vicino a «Falstaff», alfa e omega di una parabola teatrale incredibilmente vasta e screziata, anche se «Oberto» meglio si accosta a «Rigoletto», per la tematica del padre difensore dell'onore della figlia e per alcuni gesti, negli accompagnamenti, che ritorneranno identici, a distanza di oltre dieci anni («Oberto» è del 1839). I punti di pregio del nuovo allestimento risiedono nella omogenea compagnia di canto e nella regia di Mario Martone. Due divi rossiniani come Sonia Ganassi e il regale Michele Pertusi (lei un poco appannata in qualche nota grave, ma sempre straordinaria come personaggio vocale) si intrecciano con la morbida cantabilità verdiana di Fabio Sartori e con la sorpresa di Maria Agresta, soprano aguzzo, fresco, grintoso. Come da eredità donizettiana, il Coro è fondamentale alla drammaturgia e qui come sempre, ultimamente, lo troviamo estremamente sciolto, sia nel canto che nella recitazione. Mai immaginata tanta disinvoltura scenica di alcune coriste: stiamo a fissarle a lungo, per controllare se davvero siano loro, se davvero cantino. Cantano.
Martone le vuole o sciantose, provocanti mogli (o simili) dei vari boss camorristici, oppure meste madri di famiglia, sfatte nel corpo, abituate solo a sfogliare album del passato. La scena di Sergio Tramonti (fresco vincitore del Premio Abbiati per «Cavalleria rusticana» al San Carlo) brilla per maestosità e insieme perfetta funzionalità tecnica: un appartamento dall'opulenza esibita, con marmi, colonne e ringhiere dorate, sparisce a vista, incastrandosi nella quinta di sinistra del palcoscenico, e svelando tutta la desolazione del paesaggio retrostante. Una piccola nicchia, con un tabernacolo e santini fa da cerniera tra i due mondi. «Oberto» per Martone-Tramonti e Ursula Patzak, che firma i costumi, non abita più a San Bonifacio, vicino a Bassano, nel 1200, bensì a Napoli. Oggi.
La trasposizione temporale rende più chiara la drammaturgia. Anche se le «balde cervici» o le «cherubi nubi» del libretto di Solera non appartengono al lessico contemporaneo dei bassifondi. Musicalmente c'è la novità di un Duetto, fra soprano e mezzo, mai sentito fino ad ora: ampio, importante, ben cantato e siglato da un bacio saffico (anche questo non previsto, ma ci sta). Interessante anche la Sinfonia, con presagi del futuro Verdi, che Riccardo Frizza affronta con qualche sbandata negli attacchi iniziali e poi assestata – come tutta l'opera – senza particolari accensioni. Ma a proposito di direttori, la Scala negli ultimi giorni ha visto il ritorno di Zubin Mehta, con la sua Orchestra del Maggio, in tono minore rispetto alla spavalda tenuta degli archi che conoscevamo. Segno amaro che la crisi dell'istituzione sta danneggiando fortemente la tenuta artistica dell'impero musicale fiorentino. Sempre per la stagione della Filarmonica, invece, lunedì scorso si è apprezzato il debutto scaligero di Juraj Valchua, trentenne, prima bacchetta della Sinfonica Rai a Torino: un vero concertatore, severo, puntiglioso, con un bellissimo sinistro. Ha proposto Dvorvák, con un ventenne violoncellista-poeta, incantevole, Narek Hakhnazaryan (primo al Ciaikovskij) e poi Strauss, «Don Juan» e «Rosenkavalier-Suite»: il suono dell'orchestra, talora riluttante a tanta insolita disciplina, era alla fine bellissimo, pieno, trasformato.
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Oberto Conte di San Bonifacio di Verdi; direttore Riccardo Frizza, regia
di Mario Martone; Teatro alla Scala,
fino al 14 maggio

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