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Questo articolo è stato pubblicato il 28 aprile 2013 alle ore 08:21.

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Credo di avere capito perché Antonio Latella, nello stesso anno in cui ha affrontato Un tram che si chiama Desiderio di Tennessee Williams, ha sentito anche la necessità di lavorare, subito dopo, su Francamente me ne infischio, il suo ingegnoso progetto in cinque tappe o «movimenti» – da seguire in serate diverse, o tutti insieme in una lunga maratona – che parte da Via col vento, di cui cita nel titolo la celeberrima battuta conclusiva: penso che Latella abbia colto una sorta di affinità fra i personaggi di Blanche Dubois, la nevrotica frustrata al centro del dramma di Williams, e di Rossella O'Hara, la «leggendaria» protagonista del romanzo di Margaret Mitchell e del film di Victor Fleming.
Blanche e Rossella, nella visione di Latella, sono sorelle, o quanto meno cugine, poiché incarnano entrambe – seppure in epoche e chiavi diverse – il tramonto di una serie di illusioni, la caduta di quello che si è soliti definire il sogno americano. È questo aspetto che ne fa due figure emblematiche, è questo tratto comune che le rende interessanti agli occhi del regista. Blanche, però, è una creatura fragile, sconfitta, piegata dalla vita, mentre Rossella è la figlia di un'America dura, violenta, sempre pronta a reagire, attenta soprattutto alle leggi del profitto. E in questa suo modo di essere sta la cifra dell'intera operazione.
Nei cinque capitoli, completamente differenti per stile, linguaggi, codici espressivi – si va dalla recitazione al canto, dall'uso di vistose maschere alla pura coreografia, e anche in questa molteplicità di direzioni sta l'ampio respiro della proposta – convergono i materiali più disparati, dai discorsi di Bush al Kafka della Relazione all'Accademia, da Peter Gabriel ad Alce Nero che racconta la strage di Wounded Knee. Non mancano neppure le dichiarazioni della «Mammy» Hettie McDaniel, la prima attrice di colore a vincere l'Oscar, che alla «prima» di Atlanta non fu ammessa in sala. Nei vari approcci, Rossella, viene via via interpretata da ognuna delle tre straordinarie attrici, muta voce e fisionomia, e si trasforma a sua volta in una serie di altri personaggi, diventa Melania, Ashley, Rhett Butler e così via, per accumulo, per stratificazioni successive.
Se in tutto ciò è però possibile identificare un vago filo conduttore, si potrebbe dire che esso consiste nel passaggio di Rossella dalle speranze d'amore giovanili alla scoperta di una realtà spietata che non perdona chi ne resta escluso. I cinque tasselli sono, in fondo, anche il suo rito di accettazione di una cultura egoistica, cinica, razzista, dove senza fama e successo non sei nessuno. Ma sarebbe riduttivo leggervi solo una presa di posizione banalmente anti-americana: ciò che Latella esprime non è tanto un giudizio sull'America, quanto un'anatomia dei suoi abitanti, delle loro radici, dell'origine del loro pensiero.
Ogni capitolo fa storia a sé, ma è dal loro assommarsi che si ricava un senso complessivo. Il primo, Twins, mostra una Rossella ancora rigida, goffa che, vestita anni Cinquanta, sogna alcuni miti del Novecento, dall'astronauta Neil Armstrong a Marylin Monroe a King Kong, che col suo costume di pelliccia resterà una presenza costante dell'intero ciclo. Nel secondo, Atlanta, dove è in lutto per la morte del marito, si identifica con la città nella quale si prepara un grande ballo per l'arrivo delle truppe: c'è una zia che sviene di continuo, e Melania che partorisce, mentre lei sembra porre la maternità in secondo piano. Nel terzo, Black, si accanisce furiosamente contro i neri, e scandisce l'infame «decalogo» del Ku Klux Klan. Nel quarto, Match, viene ricordata e descritta dai tre uomini che ha amato, seduti attorno a un tavolo, con le sue foto nel computer. Nel quinto, Tara, tre Rosselle in una casa-gabbia-America prendono il tè con gesti lentissimi, in un silenzio assoluto, mentre lo scimmione culla bandiere a stelle e strisce in una casetta oscillante.
Tutti e cinque i «movimenti» si svolgono in uno spazio neutro, privo di vere scenografie, caratterizzato solo da pochi oggetti ricorrenti, come le bandiere e le casette bianche di varia dimensione. Il tono, il taglio dell'azione cambiano ogni volta, ma resta l'impronta di una certa, preponderante fisicità che sovrasta la parola. L'elaborata costruzione drammaturgica di Federico Bellini e Linda Dalisi gioca sull'incessante passaggio dal testo al commento del testo: i personaggi stessi si riferiscono ora al film, ora al romanzo, evocano situazioni presenti nell'uno e non nell'altro, fanno osservazioni quali «in novecento pagine non ci siamo mai parlati». Come in Un tram che si chiama desiderio, Latella si dimostra abilissimo nell'entrare e uscire senza sosta dalla rappresentazione: c'è un momento in cui una delle attrici legge, velocissima, il copione nella sua interezza, compresi i due punti e i trattini, con effetto irresistibile. Alla fine la stessa sequenza di battute viene ripetuta lentamente, con le luci che si vanno attenuando, e così la comicità si ribalta in tragedia. Tutto il progetto passa di continuo dal graffio stridente all'emozione profonda. Ma sono soprattutto strepitose le tre giovani interpreti – una Valentina Vacca di sorprendente lucidità e sottigliezza, una Caterina Carpio di incontenibile potenza, un'esuberante Candida Nieri – che si sdoppiano, si moltiplicano, si travestono, ballano, cantano senza risparmiarsi, illuminano gli argomenti e i personaggi da mille, mutevoli prospettive.
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Francamente me ne infischio, regia
di Antonio Latella, visto al Teatro i
di Milano

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