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Questo articolo è stato pubblicato il 04 maggio 2013 alle ore 14:47.

Dalla denuncia alla comicità: negli ultimi tempi il cinema politico italiano ha puntato sempre di più su commedie surreali, spesso di basso livello, dove i protagonisti sono semplici macchiette prive di spessore.
Un cambiamento netto rispetto al passato, quando le nostre principali produzioni del genere erano film drammatici, impegnati e dai contenuti importanti.
L'obiettivo, nel cinema degli anni '60 e '70 in particolare, era quello di raccontare corruzioni, intrighi e imbarazzanti segreti della nostra classe politica.
Basti pensare ai nomi di Elio Petri e Francesco Rosi: due autori che, nel corso della carriera, sono sempre stati in prima linea per portare avanti un cinema d'inchiesta, in grado di risvegliare le coscienze approfondendo tematiche e verità tenute nascoste all'opinione pubblica.
Oggi tale sentimento d'indignazione, che sembra ormai perduto per sempre sul grande schermo e non solo, ha lasciato spazio all'ironia e a una raffigurazione grottesca, se non addirittura "cartoonesca", dei rappresentanti del potere.
Se l'ultimo titolo davvero degno di nota sull'argomento è «Il divo» di Paolo Sorrentino (uno straordinario concerto audiovisivo con protagonista Giulio Andreotti premiato al Festival di Cannes del 2008), negli anni più recenti sono numerose le pellicole del filone che difficilmente verranno ricordate per la loro importanza storica.
Tra i personaggi più noti c'è sicuramente Cetto La Qualunque (interpretato da Antonio Albanese), un candidato politico disonesto e perverso nato sul piccolo schermo e arrivato al cinema con «Qualunquemente» (2011) di Giulio Manfredonia.
Il successo del film è tale che la coppia Manfredonia-Albanese è chiamata a realizzare il sequel «Tutto tutto niente niente», dove l'attore lombardo veste contemporaneamente i panni di tre personaggi diversi: uno di questi è Rodolfo Favaretto, un secessionista veneto razzista che sfrutta la manodopera clandestina.
La faccia più negativa del potere è mostrata anche in «Viva l'Italia» di Massimiliano Bruno, dove Michele Placido è un uomo corrotto che, grazie ai suoi agganci, riesce a portare i figli al successo.
Piuttosto stralunato è invece Toni Servillo in «Viva la libertà» di Roberto Andò, nei panni di un politico in grave declino che decide di autoesiliarsi a Parigi, mentre esplicitamente impreparato è Claudio Bisio in «Benvenuto presidente» di Riccardo Milani dove, a causa di un malinteso, da precario in un paese di montagna si ritrova Presidente della Repubblica.
Tali derive del filone, non memorabili ma di forte attualità e premiate ai botteghini, vengono ormai considerate (dal pubblico e dai produttori) le uniche possibili per raccontare un mondo politico in cui la comicità è sempre più interiorizzata. Come dimostra anche la scalata elettorale e mediatica di Beppe Grillo.
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