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Questo articolo è stato pubblicato il 13 maggio 2013 alle ore 08:09.

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Da che mondo è mondo, ha scritto David Brooks sul New York Times, la comunità degli uomini si sforza di cercare metodi per prevedere i comportamenti umani. «La matematizzazione della soggettività», ha sintetizzato Leon Wieseltier su New Republic. Finora gli scienziati analizzavano i motivi per cui la gente fa determinate cose e li elaboravano fino a costruire un modello matematico per prevedere i comportamenti futuri. Ora invece siamo nell'era dei Big Data, quella delle grandi aggregazioni di numeri computabili da super calcolatori, e il modello è cambiato.

Non c'è più bisogno di spiegare i comportamenti della gente, è sufficiente osservarli, raccogliere le informazioni, soffermarsi sulla loro ripetizione e infine stimare le probabilità su come si comporterà la gente in futuro. Così, per esempio, l'algoritmo che al primo digitare nella finestra di ricerca di Google anticipa, sulla base delle ricerche altrui, quello che il sistema pensa tu voglia cercare. «Datificare i fenomeni», dice ancora Wieseltier. Big Data è una gran cosa: in effetti, le informazioni a disposizione sono molto utili per prendere le decisioni o, meglio, per aiutare a prendere le decisioni. Ma solo a patto che si sappia che sono informazioni limitate. Big Data non può sostituire il libero arbitrio, non si possono delegare ai numeri le scelte politiche, economiche, sociali. Una vecchia volpe della finanza come George Soros, per esempio, va controcorrente quando fa le sue scelte sui mercati: mentre tutti cercano di intuire le preferenze degli investitori e di anticiparle, lui va alla ricerca dei possibili errori, che ovviamente ci sono, e punta sulle interpretazioni errate della gente per scommettere sul momento in cui saranno insostenibili.

Bene il web e bene i Big Data, quindi, ma con juicio. Sono formidabili strumenti di comunicazione e di conoscenza, ma non possono sostituire contenuti e sapere. Sono mezzi, non fini. Un esempio, per capirci meglio: Obama ha usato web e Big Data per affinare il suo messaggio politico, raccogliere più soldi e vincere nei distretti elettorali in bilico; Beppe Grillo e la Casaleggio Associati invece sono convinti di aver trovato una nuova codificazione del potere che supera la democrazia rappresentativa e la sostituisce con l'illusione della partecipazione diffusa sulla Rete. «Maoismo digitale» lo definisce Jaron Lanier, uno dei visionari del web che, proprio in virtù della sua conoscenza del mezzo, avverte sui limiti della rivoluzione 2.0.

Lanier ha scritto un nuovo saggio su questo tema, ma non è il solo pioniere di internet a diffidare del ruolo salvifico della Rete. Contro le utopie populiste c'è la colta riflessione di Gianni Riotta, avviata sulle pagine del Sole 24 Ore e ora ampliata in un saggio Einaudi intitolato Il web ci rende liberi?, con il punto di domanda che fa già da risposta. Ci sono anche l'esperto di new media Evgeny Morozov e gli studiosi Viktor Mayer-Schönberger e Kenneth Neil Cukier, i cui nuovi saggi sono raccontati nell'articolo successivo da Luca Sofri, uno dei primi blogger italiani e il fondatore del più bel giornale online, ilpost.it. Dati ce ne sono a sufficienza per farsi un'idea. Poi, però, scegliamo noi.

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