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Questo articolo è stato pubblicato il 12 maggio 2013 alle ore 08:29.

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Che rapporto ha l'opera d'arte contemporanea con i materiali e con la loro forza estetica? Questa domanda, detta o non dichiarata, è alla base di molti sospetti da parte del pubblico. I critici invece non la affrontano spesso, anche se sono passati cinquant'anni dalla nascita dell'iconoclastia concettuale che ha limitato il valore del manufatto. Aiutano a ritornarci sopra due mostre a Venezia, in dirittura d'arrivo verso la Biennale e quando, dunque, la città diventa un crocevia di esposizioni e propone molta mondanità ma anche qualche problema interessante. Un'occasione è «A Very Light Art», a cura di Cornelia Lauf e prodotta da Caterian Tognon nella cornice di Ca' Rezzonico, il palazzo da cui prende anche il nome la tipologia di lampadario a ciocche di vetro policromo lavorato a Murano. Una visione completa della mostra, che si aprirà il 29 maggio, comprenderebbe in effetti un giro per la città a vedere gli altri grandi lampadari "Rezzonico" visibili al pubblico e spesso considerati con distrazione. La seconda rassegna è già aperta da aprile presso alcuni locali della Fondazione Cini, come tappa del percorso «Le stanze del vetro» inaugurato lo scorso anno con una ricognizione sul rapporto tra l'architetto Carlo Scarpa e questo splendido ma rischioso materiale. In questo secondo percorso, intitolato «Fragile?» e curato da Mario Codognato per la Pentagram Stiftung, le opere sono state raccolte da collezioni diverse.
Le due esposizioni, come si accennava, sono accomunate dal problema di quanto conti il dialogo con la materia per il compimento di un'opera d'arte contemporanea, nonostante ciò che una teorica come Lucy Lippard ha definito «de-materializzazione dell'oggetto artistico» e malgrado artisti come Lawrence Weiner abbia sostenuto che «l'opera d'arte non ha bisogno di essere realizzata».
In effetti, la mostra alla Fondazione Cini è piena di dimostrazioni contrarie: gli artisti della generazione concettuale hanno utilizzato il vetro sotto forma di frammenti rotti, come Joseph Beuys, o come luogo per evidenziare una Barra d'aria come Giuseppe Penone e come polo di gravità che orienta lo spostarsi della materia, sotto forma di vaso che spinge un drappo nell'opera di Giovanni Anselmo. Il vetro diventa qui il punto minimo di lavoro sulla pittura, come nelle grandi lastre in sequenza a cui Gehrard Richter riduce la sua, peraltro straordinaria, capacità di dipingere in modo realistico. Oppure il punto più contraddittorio di lavoro sulla scultura, in un'opera di Luciano Fabro che lascia mezzo spazio trasparente e mezzo invece specchiante, a suggerire un moto in avanti e uno verso le nostre spalle dello sguardo.
Alcune opere ci parlano di storia, tra cui Dust to Dust di Ai Weiwei: ci presenta in un vaso polvere di vetro risalente al neolitico, cioè dai cinque ai settemila anni or sono, dimostrando quanto lontano fu il tempo in cui imparammo a servirci del silicio piegato ai nostri bisogni. Altre ci parlano di incontri inediti tra i sensi, come le barre cave di vetro specchiante in cui Carsten Nicolai trattiene il vuoto. Altri ancora, come il gruppo Claire Fontaine, segnalano con una goccia sfaccettata di vetro i punti di maggiore sensibilità del percorso secondo la disciplina del Feng Shui.
Le opere sono state accostate per manifestare la duttilità espressiva del vetro e quanto diverso può essere l'approccio a esso in relazione a differenti poetiche e in differenti decenni, dagli anni Sessanta a oggi. Purtroppo, ogni mostra che parta dal presupposto di usare una materia come tema – se ne sono viste molte sull'impiego della luce elettrica – corre il rischio di avere qualcosa di pretestuoso: anche qui, gli artisti sembrano dire che a loro non interessa il vetro in sé, ma le sue potenzialità di strumento per il tema che intendono affrontare. Lo usano, non lo amano.
In questo senso risulta più interessante l'approccio di «A very Light Art», laddove le opere sono state concepite a partire da alcuni quesiti puntuali: possiamo ancora fare qualcosa con la tradizione di Murano? I soffiatori che vivono segregati dal Tredicesimo secolo in quell'isola, per non svelare i loro trucchi e perché le fornaci non incendino la città, sono ancora oggi dei virtuosi straordinari. Ma sono cari, e i souvenir che vengono venduti ai turisti sono ormai quasi tutti Made in China. L'arte può fare qualcosa perché la tradizione del vetro veneziano non muoia? E questa tradizione – la domanda è ancora più impegnativa – può fare qualcosa per aiutare l'arte a rinnovarsi?
La risposta sembra essere interlocutoria. Non si possono spazzare via così tanti anni di abbandono del benfatto o comunque del fare manuale, con o senza l'aiuto di tecnici e di artigiani che realizzano un progetto su indicazione di un artista-regista.
Non volendosi affidare ai maestri vetrai, anzi forse cercando di immedesimarsi in loro e prenderne in parte il posto, Stefano Arienti propone un ciuffo di fiori di quelli che connotano i "Rezzonico", ma realizzato con un ramo vero, carta stagnola e carte colorate, come a volere ristabilire il modello da cui quei lampadari hanno preso spunto. Qualcosa di simile la troviamo nell'opera del messicano Gabriel Orozco, fatta con un ramo di bambù e piume di uccello. Flavio Favelli ha messo insieme, come nella sua pratica abituale, un accrochage di residui che ora creano una forma inedita e ibrida, tra memoria e dimenticanza del passato.
Chi si è misurato con le fornaci lo ha fatto spesso in punta di piedi: Luigi Ontani presenta un'opera del 2005, in parte su vetro e specchio di Murano ma in parte in forma di disegno a china e acquerello. Mario Airò ha cercato una curva nuova, cioè un nuovo modo di piegare un tubo per farne un vaso adatto a contenere due fiori soli: un dialogo poetico ma anche una sfida e un suggerimento ai soffiatori. L'austriaco Heimo Zobering ha realizzato delle sfere rosso rubino soffiate a mano, di circa mezzo metro di diametro, posizionate in un lungo ambiente come a invaderlo tutto con la semplicità delle forme e la violenza del colore: il loro collo è simile a quello delle bottiglie e contengono ciascuna una lampadina che le trasforma in lanterne rosse. Solo Cerith Wyn Evans ha accettato pienamente la sfida di lavorare con un maestro vetraio, Gianni Seguso, realizzando complicati crisantemi con la tecnica della soffiatura "a mano volante". Ci sarà un motivo per cui solo questo bizzarro inglese è andato fino in fondo nel giocare con una tradizione antica e morente.

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