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Questo articolo è stato pubblicato il 12 maggio 2013 alle ore 08:35.

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Viaggi per ciechi? Sembra un paradosso, poiché sappiamo bene che il turismo è soprattutto un gioco di sguardi: i visitatori salgono su un bus, vengono portati alla loro destinazione, scendono, guardano rapidamente, risalgono sul loro mezzo per essere condotti alla tappa successiva dove ci sarà qualcosa d'altro da vedere. Vedere, appunto.
E mentre i turisti guardano i monumenti, gli studiosi osservano loro: dopo tutto il turista – con i suoi strani vestiti, la sua ossessione per le fotografie, la passione per i souvenir – è spesso più interessante di molte località celebrate dalla pubblicità. Non c'è però accordo su quel che si vede. Per esempio lo storico americano Daniel Boorstin ha sostenuto, ormai mezzo secolo fa, che in realtà il turista non vedrebbe un bel nulla, se non «pseudo-eventi». E il sociologo Dean MacCannell ha mostrato come lo sguardo del turista generi quasi inevitabilmente una sorta di rappresentazione teatrale (Staged Authenticity) inscenata apposta per lui. In tempi più recenti l'intonazione critica si è un poco attenuata: per esempio il filosofo Tzvetan Todorov ha spiegato che il maggior problema dei turisti è semmai il poco tempo a disposizione e che soprattutto questa condizione li spinge a preferire i monumenti agli altri esseri umani. Il sociologo John Urry ha infine sottolineato che lo sguardo del turista è uno sguardo specializzato, come quello del medico che riconosce i sintomi della malattia o del poliziotto che ricerca indizi sul luogo del crimine, certo diverso da quello del residente che passa vicino a un luogo famoso mentre si reca al lavoro, degnandolo appena di uno sguardo distratto.
Quale che sia il giudizio finale, tutti concordano sul fatto che la dimensione visuale nel turismo è fortissima, quasi esclusiva. Per questo il miglioramento delle proprie qualità di viaggiatori è anche inevitabilmente una forma di educazione dello sguardo, che può passare dall'obiettivo della macchina fotografica o per altre vie: imparare a vedere di più e meglio, a vedere quel che non si vede.
Ma dopo aver affinato lo sguardo, per continuare sulla via intrapresa occorre cambiare completamente strategia, mettere in sordina la vista e valorizzare gli altri sensi. Già da tempo del resto abbiamo imparato a viaggiare seguendo le tracce del gusto, con il turismo enogastronomico. Ma tatto, olfatto e udito possono riservare sorprese anche maggiori.
È quel che ho pensato alla notizia di un «Viaggio sensoriale in Cappadocia per ciechi e ipovedenti» (http://lacompagniadelrelax.it). C'è inevitabilmente sorpresa: come si racconta la Cappadocia a chi non può vederla? È invece si può, per esempio ascoltando il canto dei dervisci (sema), camminando di notte nelle valli tra i profumi di fiori e piante, viaggiando in mongolfiera per sentire il vento fresco dell'alba sulla pelle; il tatto svela la fine tessitura dei tappeti o la consistenza dell'argilla dei vasai.
Naturalmente una proposta di questo tipo, pensata per un pubblico particolare, può essere altrettanto utile, anzi quasi necessaria, anche per chi ci vede benissimo.
L'olfatto, il nostro senso più primitivo ed elementare, impastato d'emozione, schiude mondi inesplorati. Già il nome di profumi famosi è una promessa di viaggi: Un jardin sur le Nil di Hermès o Arabie di Serge Lutens, anche se nessuno promette un viaggio più raffinato di Un certain été à Livadia, di Christine Nigel, che ci porta in Crimea, nei giardini del palazzo di Livadia, ultima residenza d'estate degli zar. Ma ci sono anche viaggi veri, come quello in Marocco nella vallata di Dadès (300 km da Marrakech), sulla soglia del deserto, dove si stendono a perdita d'occhio campi di rosa pallida impiegati per produrre l'acqua di rose e dove, nelle prime settimane di maggio, in occasione della raccolta, tutta la popolazione dà vita all'indimenticabile Festa delle rose. La rara e ambita vaniglia naturale (la maggior parte di quella che consumiamo è invece artificiale) vi condurrà in Messico nelle terre dell'antico popolo dei Totonachi (Stato di Puebla e Veracruz). Le verdi e morbide liane di vaniglia crescono ancora oggi nell'umida foresta o sono coltivate in piccoli appezzamenti sposandole ad alberi di arancio, ma la maggior parte della produzione è migrata verso il Madagascar e l'Indonesia, ideale prosecuzione di questo viaggio. Il profumo dei bianchi fiori degli aranci amari ci porta invece nella Spagna araba, a Siviglia, dove presso i resti della moschea, trasformata in cattedrale nel XV secolo, si trova il Patio de los naranjos. Un viaggio nella memoria conduce sulle tracce delle vaste coltivazioni di gelsomino in Sicilia, oggi trasferite in Tunisia ed Egitto (ma a Modica si può ancora gustare un originale gelato al gelsomino).
Altri sensi, altri viaggi. Viaggi sonori, raccogliendo per via voci e suoni, da registrare magari sul cellulare (e postare poi su http://soundtransit.nl): il suono delle campane di una chiesa, la voce di un muezzin che chiama alla preghiera o il canto dei monaci buddisti... Ma anche le voci dei venditori al mercato, i clacson e i rumori del traffico, il concerto improvvisato degli zingari all'angolo della via, le voci dei bambini in gioco, gli annunci degli altoparlanti, il battito cadenzato della pioggia tropicale, gli uccelli tra le fronde di un bosco... Non si finisce più, e quando si cominciano a capire le potenzialità del mezzo, e a prenderci gusto, non si smetterebbe mai. Alcuni suoni sono prevedibili, perché avvengono a orari fissati e si può catturarli con facilità; per altri ci vuole fortuna, riflessi pronti, oppure pazienza, come per il verso di un animale.

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