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Questo articolo è stato pubblicato il 12 maggio 2013 alle ore 08:44.

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È stata definita l'ultima diva classica creata da Hollywood, a metà degli anni Cinquanta, quando gli studios vacillavano davanti alla crisi che li avrebbe rivoluzionati.
Il capo della Columbia, Harry Cohn, era in cerca di un "rimpiazzo" per la star della compagnia, la ribelle Rita Hayworth, e scelse Marilyn Pauline Novak, ventenne di Chicago con un fisico sontuoso approdata a Los Angeles con due compagne di scuola. L'idea era di farne l'ennesimo clone di Marilyn Monroe e tentarono invano di ribattezzarla Kit Marlowe; ma la giovane attrice si ostinò per mantenere il cognome di famiglia e rifiutò categoricamente Kit perché richiamava troppo "kitten", la gattina svampita in cui volevano trasformarla.
Diventò perciò Kim Novak, misteriosa screen goddess degli anni Cinquanta e Sessanta cui il 66° Festival di Cannes rende omaggio: ottantenne, sarà l'ospite d'onore del festival, che presenterà la copia restaurata del film chiave della sua carriera, La donna che visse due volte, il capolavoro di Hitchcock del 1958. Madeleine, capelli corti chiarissimi e un aderente tailleur grigio costruito dalla costumista Edith Head, è un'apparizione perturbante, il fantasma di una donna scomparsa cui l'altra donna del film, Judy, una brunetta senza classe e senza storia, presta la propria carne e la propria identità, prima per soldi e poi per amore del protagonista. Inquietante tuffo nella vertigine (dell'intreccio, ma anche delle ossessioni di un regista "creatore di bionde" e di un sex symbol recalcitrante), La donna che visse due volte fu il momento magico di Kim Novak, quello in cui emersero tutta la passione e la vulnerabilità celate dietro la sua sensualità riluttante e la sua espressione dolorante.
Ma non è l'unico film in cui s'intuisce la tensione perenne tra l'attrice e un modello hollywoodiano che non condivideva e che cercò di contrastare, fino ad abbandonare la carriera: nel 1965, dopo il matrimonio con Richard Johnson, suo partner in Le avventure e gli amori di Moll Flanders, e poi di nuovo, a più riprese, nel 1969, nel 1973, nel 1980, diradando le sue apparizioni per dedicarsi alla pittura e al ranch nel quale allevava cavalli e lama con il secondo marito veterinario. Ricordando la prima volta che lasciò Hollywood, all'apice del successo, ha detto semplicemente: «Me ne andai. Mi girai e me ne andai». Pare di vederla, con la sua andatura un po' pigra, che si allontana, come ha fatto in tanti film, senza recriminazioni.
Destinata a essere bomba sexy, la Novak emerse invece nella parte della brava ragazza innamorata dell'eroinomane Frank Sinatra nell'Uomo dal braccio d'oro di Preminger e, soprattutto, in quella di Madge, la più bella del paese in Picnic di Logan, un ritratto della provincia soffocante turbata dalla fisicità elettrica del dropout William Holden e, appunto, di Madge: quando, al centro della lunga scena del picnic, si muovono piano uno verso l'altra nella danza, emanano sesso allo stato puro. L'offerta di una sensualità combattuta è stato forse il tratto più personale della sua recitazione, priva dell'innocenza disarmante che era di Marilyn e della spudorata franchezza di Rita Hayworth. Spesso, si trovava dalla parte sbagliata del triangolo sentimentale o della scala sociale: segretaria ventenne innamorata di un vedovo sessantenne in Nel mezzo della notte di Delbert Mann (il suo film preferito), amante di Kirk Douglas in Noi due sconosciuti di Quine, cameriera cinica che seduce e tormenta il protagonista di Schiavo d'amore di Hughes, o, in commedia, strega che vuole cambiare la sua natura (ancora una volta per amore di James Stewart) in Una strega in Paradiso di Richard Quine, (che era innamorato di lei e amorosamente la diresse in tre film). La parte leggera perfetta arrivò nel 1964, con il genio Billy Wilder, in Baciami stupido: la prostituta/cameriera Polly, mollata dall'ultimo fidanzato in una roulotte vicino al Bar dell'Ombelico, che sogna solo di racimolare il denaro per comprare un'auto, attaccarci la roulotte e tornare a casa, è un miscuglio di comica rassegnazione e voglia di casalinga tenerezza che non ci racconta solo gli autoinganni del franante puritanesimo americano, ma anche la psicologia di un'attrice che fu diva suo malgrado, con morbido disincanto.
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