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Questo articolo è stato pubblicato il 12 maggio 2013 alle ore 08:30.

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Dopo Roberto Bolle, Daniel Libeskind e Peter Greenaway, ospite a «Il Gioco serio dell'arte» di Palazzo Barberini a Roma è stata questa settimana Vanessa Beecroft.
L'arte contemporanea come testimonianza: forse è questo il punto di vista che ci offre Vanessa Beecroft. Nata a Genova da madre italiana e padre inglese, una nonna di lingua tedesca, e formatasi a Milano al l'Accademia di Brera, Venessa vive a Los Angeles con i suoi figli americani. È una testimone del nostro tempo, non solo oculare, ma anche auricolare. Perché forse l'arte contemporanea ha bisogno di ascoltare se stessa, di confessare la sua autobiografia.
L'arte contemporanea come testimonianza è la cifra del lavoro di Vanessa. Perché il suo lavoro è incentrato sul corpo, quello femminile, sulla sua bio-estetica. Vanessa Beecroft ha sempre dichiarato che le sue performances e la loro "proiezione" in video e fotografia nascono non solo dalla presenza del corpo femminile ma anche dalla memoria che ne abbiamo attraverso il canone classico.
Abbiamo dialogato con Vanessa, da queste premesse, su di una questione, a mio avviso cruciale, il significato della nudità. Come ben scrisse Franco Rella, la nudità è uno stato dell'essere, che si conquista per dare «luogo al luogo», per offrire ospitalità allo straniero che ci abita. Ed è qui che l'arte contemporanea può testimoniare la categoria della nudità. Provocandoci. Vanessa Beecroft crea, così, delle opere d'arte che abbiano il compito di sostare sulla soglia, tra dimensione erotica e pornografica. Per sollecitare una necessità: spogliarsi dell'omologazione, della violenza degli stereotipi, dei pregiudizi che guidano i nostri occhi. La nudità che Vanessa produce, per esempio con le sue modelle, è una provocazione su cui molti sono caduti non cogliendo un fatto fondamentale nell'ambito delle performances: gli spettatori non sono innocenti. Abbiamo dimenticato di pensare contro noi stessi, di affrontare il disagio che può avere un pensiero contro di noi. Se io guardo un negro vestito in smoking che mangia un pollo con le mani a piedi scalzi, vicino ad altri negri che tra loro non si parlano, seduti dietro a un tavolo di cristallo, cosa devo pensare? Durante la performance VB65 che ha messo in scena questa situazione, lo spettatore deve diventare nero di anima, amare e insieme soffrire «questa Africa interiore», vivere il dolore e il sacrificio con l'esperienza artistica relativa alla dimensione umana.
In questi termini l'arte contemporanea è grande quando si presenta come testimone che rischia, azzardando, di essere fraintesa, con il pericolo di essere divinizzata o demonizzata. È invece piccola cosa quando imbocca quattro strade verso il nulla. Non mi pare, infatti, che ci occorra un'arte che finalizzi la sua visione politica a legislazione. Neppure ci può essere utile un'arte che si sostituisca alla sociologia, facendosi carico di politiche sociali, tardive oppure furbe. E nemmeno quell'arte che in nome di una buona idea replica serialmente il proprio prodotto. Infine appare un déjà vu patetico quell'arte contemporanea imitazione di altre arti, quando saccheggia a piene mani storie e simboli che appartengono ad altri generi artistici. L'opera di Vanessa Beecroft dichiara debiti culturali e citazioni di altri linguaggi estetici. Perché ammette di far parte di una cittadinanza greco-romana, europea che si ri-orienta da una riflessione sul potere dell'estetica. Così fu per i primi suoi lavori legati al tema del l'anoressia oppure alla relazione con la moda. Con una domanda: il rapporto tra cibo e corpo passa attraverso se stessi oppure è mediato o influenzato dalle idee che altri hanno sull'immagine del mio proprio corpo a partire da un'immagine ancora precedente che si impone come ideologia? Su questi interrogativi Vanessa lascerà un contributo nel campo dell'arte contemporanea.
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