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Questo articolo è stato pubblicato il 19 maggio 2013 alle ore 08:29.

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In età pleistocenica homo si solleva sugli arti inferiori, assume la postura eretta e guadagna una nuova prospettiva sul mondo. Ora il suo muoversi da un luogo all'altro non è più solo un fatto fisico, ma anche e soprattutto un fatto immaginativo: contemplando l'orizzonte, egli pianifica le azioni future e immagina luoghi altri dove poter essere e verso cui spostarsi fisicamente. Secondo i fautori di quella che viene definita «Savana Hypothesis», la conquista della postura eretta è responsabile di importanti rimodulazioni degli assetti cognitivi del cervello umano. «Sarebbe più penetrante dire che l'uomo deve la sua intelligenza ai piedi» afferma George Santayana (1863-1952), pensatore spagnolo naturalizzato americano, professore ad Harvard ed esponente del cosiddetto "realismo critico", una branca della filosofia che si oppone alle innumerevoli forme di idealismo insite nella cultura occidentale contemporanea. Filosofia del viaggio è un piccolo grande testo – pubblicato postumo nel 1964 – sul tema dello spostamento inteso sia quale dimensione necessaria all'intelligenza, sia quale interpretazione in chiave pragmatistica della vita animale, sempre dinamicamente alla ricerc a di un adattamento all'ambiente circostante. Rispetto ai vegetali, che sono piantati nel terreno mediante le radici, per i quali esiste solo la possibilità di un'espansione in senso verticale, gli animali possono spostarsi in senso orizzontale; in particolare l'uomo risponde a un istinto innato che lo rende curioso, che lo spinge ad abbandonare il certo per l'incerto, come si evince dai moltissimi miti arcaici e meno arcaici, non ultimo quello dell'Ulisse dantesco che diserta la patria preferendo procedere verso l'ignoto.
Giuseppe Patella, in un bel saggio presente nel volume, ricorda che il viaggio è anche metafora tout court di ogni percorso filosofico, giacché il metodo filosofico evoca l'immagine della strada da percorrere (dal greco metá-odós), la via del pensiero complesso che erra senza meta precisa, come esemplificato nella figura del viandante di Nietzsche che ha «in se stesso qualcosa di intimamente errante e che trova la sua gioia nel momento e nella transitorietà». «Io vivo in filosofia – afferma Santayana – esattamente dove sto nella vita quotidiana: altrimenti non sarei onesto». Come il Wanderer, egli si accostava alla filosofia sempre da critico outsider: era un eclettico estraneo a qualsiasi scuola o dogmatismo, così come perennemente straniero si percepiva ovunque andasse, avendo improntato la propria vita a un infaticabile nomadismo geografico che lo vide prima statunitense, poi berlinese, parigino, londinese, infine romano, sempre mosso dall'illuminante inquietudine di una nuova partenza.
Nel volume sono presi in considerazione alcuni modelli di viaggiatori classici: il migrante, che desidera cancellare le proprie radici preso com'è dalla vertigine speranzosa del nuovo, l'esploratore, il mercante e infine anche il turista, la forma apparentemente più banale di viaggiatore. Eppure, anche nella prevedibilità dello spostamento turistico, ci è possibile un confronto tra la cultura altrui e le nostre radici, una riscoperta di queste ultime alla luce di nuovi sensi. «Tutti i turisti sono cari a Hermes, patrono dell'amabile curiosità e della mente aperta. Vi è una grande saggezza nello spostarsi il più frequentemente possibile dal familiare all'estraneo: mantiene la mente agile, distrugge i pregiudizi e accresce il buonumore».
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George Santayana, Giuseppe Patella, Filosofia del viaggio, Universitalia, Roma, pagg. 70, € 8,00

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