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Questo articolo è stato pubblicato il 25 maggio 2013 alle ore 17:19.

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Le file sono meno lunghe, la Croisette meno affollata. All'inizio del secondo e ultimo week-end del festival di Cannes, ogni anno, c'è sempre aria di smobilitazione. Ecco perché l'abile direttore Thierry Fremaux si tiene sempre in canna un'ultima intuizione, un nome o un titolo forte per le ultime proiezioni. Quest'anno, però, ne sfodera addirittura due.

Il primo è Only Lovers Left Alive. Il regista americano Jim Jarmusch ha pensato bene di utilizzare le sue arguzie di scrittura, la sua narrazione visionaria, il suo gusto estetico, per una storia di vampiri. "Ho saputo che si fanno un sacco di soldi facendo film su di loro" ha scherzato, oggi, al Palais, con l'autoironia che gli è propria. Un modo per dire che voleva attaccare e sovvertire degli stereotipi commerciali con la sua poetica raffinata, e ci è riuscito. Only Lovers Left Alive è una bella opera sulla nostalgia e sull'amore, sull'arte e sullo snobismo intellettuale. E sì, perché Tilda Swinton, vampira vestita di bianco che abita a Tangeri e frequenta lo scrittore Marlowe (la solita partecipazione impeccabile di John Hurt), e il marito di Detroit Tom Hiddleston, vampiro dark che ama le chitarre di marca, fa musica che vuole resti anonima e fa ballare i giovani americani così come un tempo suggeriva adagi a Schubert, sono soprattutto degli squisiti radical chic, i peggiori succhiasangue che uno possa immaginare.

C'è tutto in quest'opera, anche se appena accennato: critica socioantropologica compresa. I due vivono lontani, ma si amano alla follia: lui ha manie suicide, lei vive nel passato e nell'adorazione di lui. Jarmusch, attorno a loro, cuce un'atmosfera rarefatta di musiche meravigliose, sentimenti profondi, dettagli visivi e dialoghi dall'intelligente leggerezza. E in attesa del finale – ben più disturbante di quello che può suggerire una prima impressione – ci godiamo uno dei film più sottovalutati ed elaborati di questo Festival, sotto la patina di un genere vampiresco che tutto, da anni, semplifica. Peccato, solo, per l'unica incursione dalla modernità: Mia Wasikowska provoca nello spettatore la stessa irritazione che suscita nel protagonista, quell'Hiddleston che, in questo film, sembra il fratello minore dello Sean Penn sorrentiniano.

Ottimo anche Roman Polanski, che in attesa del suo prossimo capolavoro («non quando arriverà, copioni come Chinatown sono nell'universo e ti aspettano, io spero che ce ne sia ancora uno per me», ha detto), continua a compiere esercizi di stile di pregevole fattura. Dopo Carnage cannibalizza un'altra pièce teatrale, questa volta di David Ives, tanto da far svolgere il suo remake di Venere in pelliccia, tutto su un palco. Gli attori sono due: Mathieu Amalric, autore ossessionato dal testo e in cerca di una protagonista per adattare il libro del 1870, e Emmanuelle Seigner, attrice svampita il cui talento è però sorprendente. Con la scusa del provino, percorrono le parole che hanno cambiato un certo modo di vedere la sessualità in letteratura, e non solo (per chi si ostinasse ancora a pensare 50 sfumature di grigio come una geniale novità). Su quelle assi le recitano, le vivono, le sublimano. E per Polanski questo gioco ha qualcosa di profondamente personale: pettina l'attore francese in modo che gli assomigli il più possibile e per il ruolo della procace, sfrontata, irresistibile Vanda sceglie la moglie.

Parole apparentemente lontane, una storia in fondo border line, a un certo punto coinvolge protagonisti e spettatori con violenza, permettendo a tutti di godere di grandi performance recitative (per la Seigner è una novità, Amalric da tempo sembrava in difficoltà), di una riflessione sui sentieri dell'amore universale e mai banale, di un'elegante messa in scena che non guasta mai.
E pazienza se Roman, come al solito, sbaglia il finale. Ormai sospettiamo lo faccia di proposito. Non vincerà la Palma, il premio Oscar, ma di sicuro renderà più dolce il ritorno a casa dei frequentatori del festival.

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