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Questo articolo è stato pubblicato il 26 maggio 2013 alle ore 08:28.

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Lo studio del cervello è necessario per capire la mente. Questo è un dato inconfutabile per chiunque prenda sul serio gli straordinari successi della neuroscienza contemporanea. Ma è anche sufficiente? Oppure per spiegare l'intelligenza umana - percezione, ragionamento, coscienza, azione - sarebbe più produttivo studiare l'interazione tra mente e mondo in modo più radicale di quanto non faccia la neuroscienza tradizionale? Un'interazione che in alcuni casi è così intensa, bidirezionale, fluida e integrata da produrre un sistema abbinato comprensibile solo se indagato unitariamente? Arnaldo Benini in un articolo pubblicato sull'ultimo numero del Domenicale (19 maggio 2013), in cui recensisce il volume che Giulia Piredda e io abbiamo dedicato al modello della mente estesa (MME) opta senza esitazioni per il primo corno del dilemma: dallo studio dei meccanismi intra-cerebrali e solo da questi giungerà la spiegazione della mente umana. La posizione di Benini è ragionevole ed esprime probabilmente il sentire ortodosso di molti neuroscienziati, e personalmente ho per essa il massimo rispetto. Mi sembra però che la questione sia più articolata di come lui la presenta descrivendo (mi si consenta la semplificazione) i due partiti in lotta come composti rispettivamente da seri e rigorosi scienziati e da eloquenti ma superficiali filosofi - del tutto ignari di duecento anni di sviluppi delle scienze del cervello. Le cose non stanno così.
Innanzi tutto chiariamo il contesto scientifico. L'ipotesi avanzata da Andy Clark e David Chalmers in un celebre articolo del 1998, e successivamente sviluppata da Clark in vari saggi - secondo la quale il confine rappresentato da cranio e pelle, tradizionalmente accettato come frontiera tra mente e mondo, può essere messo in discussione - non sorge dal nulla, ma si inserisce nell'ambito di una scienza della mente attenta alla dimensione incorporata e immersa nell'ambiente dei fenomeni mentali: la cosiddetta "nuova scienza cognitiva". Naturalmente MME è una tesi radicale, come illustra questo passo di Clark: «non c'è nessuna speciale magia affidata ai legami cablati fisicamente e direttamente tra i componenti dei processi di pensiero. Le differenze tra i legami forgiati da nervi e tendini, da cavi di fibre ottiche e da onde radio sono rilevanti solo in quanto hanno conseguenze sulla scansione temporale, il flusso e la densità dello scambio di informazione. Se lo scambio è sufficientemente ricco, fluido, bidirezionale, veloce e affidabile, allora l'interfaccia tra l'utilizzatore cosciente e lo strumento tende a diventare trasparente, permettendo allo strumento di funzionare come una parte effettiva dell'utente». Questa posizione è difesa da vari punti di vista, alcuni dei quali fanno riferimento alla teoria dei sistemi dinamici e insistono sulla genesi di "sistemi abbinati" organismo-ambiente, altri sottolineando il ruolo che le tecnologie della conoscenza svolgono nel forgiare la mente umana, creando un sistema integrato tra risorse biologiche e risorse culturali. Nel libro siamo molto cauti circa le implicazioni ontologiche di MME: non è chiaro infatti se i numerosi dati empirici offerti come prova di MME non possano essere compatibili con una tesi più moderata secondo la quale l'elaborazione cerebrale interna dipende causalmente da processi esterni, senza però che i veicoli di tali processi debbano essere considerati parti proprie della base materiale del pensiero. Sul piano epistemologico tuttavia difendiamo l'interesse e l'importanza di MME, che ha il merito di offrirci una spiegazione naturalistica di aspetti fondamentali dell'intelligenza umana che sfuggono a un approccio eccessivamente neurocentrico. Questo ci sembra il senso profondo della tesi di Clark secondo cui «la mente umana, se deve essere intesa come l'organo fisico della ragione, semplicemente non può essere vista come confinata nell'involucro biologico». Qui la parola chiave è "ragione", concetto che si estende oltre i confini della biologia (che pure ne è il presupposto): riconoscere il ruolo, nel forgiare la nostra intelligenza e il nostro pensiero, delle categorie culturali e delle tecnologie della conoscenza (linguaggio verbale e linguaggi matematici, rappresentazioni pubbliche, diagrammi, mappe, libri, cartelli, e il mare crescente dei dispositivi elettronici) non è un attentato alla rilevanza del cervello, ma permette, dopo secoli di sterili contrapposizioni tra natura e cultura, biologia e società, di concepire un modello naturalistico in cui la pluralità della mente può essere descritta. Mettere in luce la ricchezza delle interazioni causali tra cervello, corpo e ambiente (fisico e sociale) mostra che per capire come funziona la mente bisogna capire anche come funziona la mente sociale e culturale che noi possediamo, uscendo dalla biologia per parlare di cultura e società. La natura relazionale del pensiero e delle interazioni che costituiscono la nostra intelligenza (e qui non c'è spazio per parlare della struttura relazionale della nostra soggettività) ne esce in questo modo evidenziata. Ovviamente il modello può essere criticato (e abbiamo dedicato due capitoli a discutere queste critiche), ma sarebbe fuorviante tacciare questo atteggiamento come anti-scientifico.
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