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Questo articolo è stato pubblicato il 02 giugno 2013 alle ore 08:35.

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Ogni cambiamento tecnologico di grande portata ha effetti rivoluzionari sulla società e sulla struttura stessa degli esseri umani. Nell'ambito delle tecnologie comunicative, basti pensare alla stampa. «Ai tempi di Gutenberg – ricorda Howard Rheingold in Perché la rete ci rende intelligenti – in tutta Europa esistevano trentamila libri scritti a mano, ma nel giro di cinquant'anni vennero messi sul mercato più di dieci milioni di volumi stampati». Tanta improvvisa abbondanza fu un elemento essenziale nella riforma protestante, nel sorgere della nuova scienza e nelle rivoluzioni politiche della modernità.
Alle prese con un potenziale così dirompente, le reazioni più comuni sono ovvie. Da un lato c'è chi abbraccia con entusiasmo la novità; dall'altro chi enuncia oscure e apocalittiche profezie. Nel caso di Internet le voci critiche sono ben rappresentate da Nicholas Carr e dal suo libro Internet ci rende stupidi?, in cui si sostiene che la capacità di concentrarsi a lungo e di pensare in modo approfondito e analitico sta soccombendo all'aggressione continua operata dal Web, e in particolare dal suo elemento di base: il link. Secondo Carr, «i link ci incoraggiano a entrare e uscire da una serie di testi anziché dedicare la nostra attenzione più intensa a uno soltanto di essi. I link sono progettati per catturare la nostra attenzione. Il loro valore come strumenti di navigazione è inscindibile dalla distrazione che ci causano». Il libro di Rheingold è una risposta a quello di Carr. Il suo titolo italiano è un po' forzato (quello inglese, Net Smart: How to Thrive Online, è meno dichiarativo e più fedele al contenuto). Rheingold, infatti, senza negare l'esistenza e la gravità del problema, dà qualche consiglio pratico su come gestirlo e conclude il suo lavoro assegnando la responsabilità del risultato ai lettori: «Ho cercato di darvi gli strumenti. Ora tocca a voi». La sua è una posizione non trionfalistica ma equilibrata: i navigatori devono sapere bene con che cosa hanno a che fare e muoversi consapevolmente per usarlo a proprio beneficio invece di esserne usati. Ma non è chiaro che basti, o che un equilibrato buon senso sia, in una situazione del genere, la dote più preziosa.
Se tralasciamo l'imponente messe di informazioni su siti e opportunità varie, se non ci lasciamo distrarre (appunto!) dalle storie raccontate sulla costruzione di Wikipedia o sulle regole che Facebook applica alla privacy dei suoi utenti, la sostanza dell'atteggiamento raccomandato da Rheingold si riduce a quanto segue: esercitate un controllo cosciente sulla vostra attenzione e siate sospettosi su quel che trovate in rete, verificandone e "triangolandone" le fonti per assicurarvi di non incappare in una bufala. Combinando i due suggerimenti, esplicitate i vostri obiettivi, scriveteli e collocateli in un posto visibile e periodicamente chiedetevi se quel che state facendo vi porta nella direzione giusta. Un buon esempio d'individualismo etico all'americana ma anche, credo, una ricetta di assoluta superficialità. Nonostante affermi nell'introduzione che «il problema di dove ci stia portando la cultura digitale ha anche un aspetto filosofico», Rheingold non sembra attrezzato per la riflessione implicata da questa frase. Non si rende conto che l'individuo cosciente e responsabile di cui parla, il quale si assume il carico di darsi precisi obiettivi e di monitorare in conseguenza la sua azione, è il prodotto di un ambiente sociale e educativo ormai sulla via del tramonto. Cita costantemente sé stesso come modello virtuoso di uso degli strumenti informatici senza riconoscere che la sua personalità è il prodotto di un altro ambiente sociale e educativo, che lui è arrivato a quegli strumenti dall'esterno e proprio per questo può utilizzarli senza lasciarsene fagocitare. Il che non vale per i giovani che sono nati nell'epoca della rete e non hanno altra esperienza che questa: istantanea, laterale, divagatoria.
Ciò di cui avremmo bisogno è un pensiero acuto e coraggioso che, senza iperboli o allarmismi, s'interroghi sulle forme di soggettività indotte dalle nuove pratiche comunicative. Avranno ancora una coscienza in senso, diciamo, cartesiano i soggetti che ne risultano? Degli obiettivi? Una chiara distinzione tra sfera pubblica e privata? A queste domande non può rispondere il buon senso, perché il buon senso è tale in quanto riepiloga l'esperienza passata e qui la sfida è immaginare un futuro che si sta svolvolgendo sotto i nostri occhi.
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Howard Rheingold, Perché la rete ci rende intelligenti, edizione italiana a cura di Stefania Garassini, Raffaello Cortina Editore, Milano, pagg. XIV+416, € 28,00

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