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Questo articolo è stato pubblicato il 02 giugno 2013 alle ore 08:40.

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Folkeggiando, a volte, ci si trova a dover uscire dall'equivoco e dall'imbarazzo di raccontare cose che i lettori immaginano di poter trovare in un museo etnografico. Parafrasando il pamphlet di Jean Clair La crisi dei musei. La globalizzazione della cultura (Skira, 2008), possiamo cercare aria fresca dal pavido folklore sonoro solo accompagnando altrove le nuove musiche folk e le musiques du monde, verso l'uscita dal brand posticcio e immobile del folk da festival di settore, da restituzione museale e storica, da espressione «autentica» del bon sauvage.
Se l'ascolto esige risorse e tempo, in tempo di crisi, per comprendere cosa lasciare in un comodo cassetto e cosa portare con sé, si può cominciare a fare un po' di ordine e di pulizia, nella libreria ideale delle musiche folk e del mondo. Da una parte, ci sono le cartoline che ci aspettiamo, i ritratti in posa da luoghi esotici, che corrispondono all'idea rassicurante di folklore e di (folk) revival. Dall'altra, i suoni vitali e innovativi che nascono dai nuovi autori del cosiddetto alternative folk, della world music e delle musiche di frontiera. Accomunati da una comune spinta a raccontare, in modo radicale, mondi e identità marginali e a camminare lontano dal mainstream. Il quale, sia chiaro, vive indistintamente nei salotti del jazz, del pop, delle musiche etniche. E un po' d'aria fresca, in questa primavera 2013, arriva da mondi sonori che non ci aspettiamo. A cominciare da un ragazzo uscito vivo da un coma da overdose. John Murry, con The Graceless Age (uscito a Itunes a fine aprile, poi in booklet), potente album californiano pure folk senza compromessi, ha fatto terapia costruendo una poetica sonora urgente e oscura. Così ha composto un piccolo poema folk esistenziale, che racconta bene l'America marginale di oggi. Affacciato, più serenamente, sull'altro oceano americano, Clarence Bucaro da Brooklyn firma dodici brani graziosi e insieme necessari, raccolti in Dreaming from the heart of New York, prodotto in casa, sideralmente lontano dal marketing e dunque, per definizione, innovativo. Voce, chitarra fingerpickin' e apparato folk che ricordano il lirismo di Jackson Browne e la forza espressiva di Van Morrison. Finalmente, qualcosa di folk che sta lontano dal folklore. E pure dal Midwest, dove le star del country business non vanno, nella migliore delle ipotesi, al di là del brand incarnato dalle anime di Johnny Cash o Dolly Parton. Andando ancora più in là, precisamente in Africa occidentale, troviamo Rokia Traoré, invece, l'autentica nuova espressione vocale della world di questo secondo decennio del nuovo secolo e la sua è una Beautiful Africa (Ponderosa Music&Art, in uscita a maggio) di stampo etno-anglo-francese, dunque molto contemporanea, lo-fi al giusto punto. È uno di quegli album che riempiono la stanza e, senza averne le pretese, conquistano spazi inediti della frontiera world. Continuando il giro del mondo, equidistante dalla periferia d'Europa e da quella dell'universo delle musiche etniche, ecco Elina Duni, che in quartetto cameristico racconta l'Albania e il Kosovo che non t'aspetti (e dove non te li aspetti, ossia su un album ECM), con un'opera davvero di frontiera e fuori dai generi, Matanë Malit (oltre la Montagna), di estremo rigore e insospettabile leggerezza. Ecco dove ci porta (a volte) il folk, lontano dai luoghi comuni e da quelli un po' troppo frequentati da suonatori in costume e pifferai del folklore senza più nulla di magico. Viva la musica popolare, a patto che ci racconti qualcosa che ancora non sappiamo.
r.piaggio1@me.com

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