Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 06 giugno 2013 alle ore 12:03.

My24
Holy MotorsHoly Motors

Un kolossal deludente, un piccolo grande gioiello sorprendente. Su due film si gioca tutto questo fine settimana cinematografico, dal visionario Leos Carax all'ex genio M. Night Shyamalan. Partiamo con Holy Motors, un saggio di cinema potente e affascinante. Aiutato dal suo attore feticcio Denis Lavant, il cineasta transalpino torna quello degli inizi, con in più una maturità audace che gli consente di comporre un mosaico di vite, di sentimenti, di citazioni e di scene di rara forza. Il protagonista deve incontrare nove persone e, in base ad esse, cambiare identità, girando da una vita all'altra in limousine come il Pattinson di Cronenberg in Cosmopolis.

Quest'auto lussuosa ed eccessiva è diventata, per entrambi, il veicolo simbolo di un presente tronfio e vuoto, di un animo collettivo frammentato, di un grande spazio vuoto da riempire. Carax, però, rispetto al collega, riesce forse a fare un passaggio ulteriore. Non è mai confuso, pur arrivando sempre al limite, non si nega nulla ma sa inquadrare tutto in una cornice precisa. E a dire che la partità si giocherà esclusivamente tra il cineasta e i suoi spettatori è Carax stesso, con la prima scena in cui chi guarda si specchia in una platea proiettata sullo schermo. Da lì veniamo catapultati in 24 ore in cui il signor Oscar, Lavant appunto, e l'aiutante Edith Scob cercano forse il senso della vita in una Parigi "diversa", trovando forse quello del cinema.

Carax come mai prima, probabilmente, ha il polso dei suoi attori - persino delle partecipazioni illustri come Kylie Minogue, Michel Piccoli ed Eva Mendes (che dà al film poche pose ma straordinarie) – costruendo su Holy Motors un equilibrio complesso con la sua presenza invadente e allo stesso tempo necessaria come regista. Da René Clair a Stanley Kubrick le ispirazioni sono tantissime, almeno quante sono le sue invenzioni: godetevi, ad esempio, la scena di sesso più bizzarra al mondo. E se vorrete un giorno spiegare a un extraterrestre cos'è e cosa può fare il cinema, fategli vedere questo lungometraggio.
Non mostrategli invece After Earth, pietra tombale sulle carriere di Will Smith e M. Night Shyamalan.

Erano i ragazzi d'oro di Hollywood, entrambi. Dei Re Mida a cui riusciva tutto, dal talento infinito: ecco perché è dura scoprire che hanno perso il loro tocco, che la loro crisi sia conclamata e che ormai possiamo augurarci, per loro, una parabola alla John Travolta, con una resurrezione artistica sorprendente fra qualche anno. After Earth è un kolossal confusionario – già bocciato dal botteghino americano – che mette insieme i sensi di colpa di un padre e l'inettitudine iniziale di un figlio troppo protetto. In una terra inospitale e pericolosissima si gioca questo rapporto privato, condizionato dal dolore di un'assenza del primo (Will Smith) e dall'incapacità, anagrafica ed emotiva, di sostituirlo del secondo (Jaden Smith). Un incidente può riscattare entrambi. Una trovata poco originale ma di solito efficace. Non in questo caso: in After Earth, complice forse anche l'invadenza di Will Smith e famiglia nel soggetto e nella scrittura che peggiora la già scarsa vena del cineasta, i due non ti emozionano mai.

E ancora di più è fallace il film nella parte più prettamente d'azione, decisamente noiosa. Un tempo avremmo sognato Smith e Shyamalan insieme: ora, invece, speriamo che rompano il sodalizio subito.
Attorno a queste due opere ce ne sono altre tre che possono solleticare la curiosità degli spettatori. In The Bay Barry Levinson si cimenta, senza infamia e con qualche parca lode nell'horror complottista, genere che nasce da The Blair Witch Project. Una finta storia vera, in questa caso ripescata da riprese di varie videocamere che raccontano un'epidemia causata da rifiuti tossici che ha devastato una città e che è stata coperta da FBI e affini. Tutto già visto, ma Levinson è una vecchia volpe della macchina da presa e porta a casa la sufficienza. Non ti accorgi del tempo che passa mentre sei in sala, e già non è poco. Vale anche per Paulette, che però poteva ambire a essere decisamente migliore.

La vecchietta acida e un po' razzista che spaccia cannabis (Bernadette Lafont, già nei film di Chabrol e Truffaut) poteva divertire e colpire molto di più. Si accontenta di farci sorridere e di farci riflettere su crisi e precarietà da una visuale diversa. Ottima idea, ma svolgimento con il freno a mano tirato. Peccato, ma comunque rimane un prodotto gradevole. Chiudiamo con The Butterfly Room di Gionata Zarantonello, cineasta italiano di talento che da Barbara Steele a Ray Wise (fino al cammeo geniale di Joe Dante come tassista), si concede un horror estraniante e ben fatto. Si aiuta con la protagonista, icona non appassita, e con il suo talento sottovalutato per un lavoro di genere che gioca su psicanalismi non banali e su un'ottima gestione del ritmo, dell'immagine e del racconto (ispirato a un corto dello stesso cineasta). E con quella giusta dose di cattiveria e angoscia che spesso manca, ultimamente. Nel cinema di genere e non solo.

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi