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Questo articolo è stato pubblicato il 09 giugno 2013 alle ore 08:35.

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«Partiti, vil razza dannata!». Un'invettiva antica quanto la nostra Repubblica, nata nel 1946. In fondo, Beppe Grillo non ha inventato nulla di nuovo. Lo conferma quest'agile volumetto di Salvatore Lupo, dedicato al «mito della nuova politica», affrancata dai partiti, che ha solcato l'Italia del secondo Novecento come un fiume carsico. Un mito con alcuni punti fermi.
Innanzitutto, la trasversalità del pensiero ostile ai partiti. In origine, il termine "partitocrazia" fu introdotto nel 1949 dal giurista Giuseppe Maranini (formatosi negli anni del fascismo e ancora impregnato di vaghi malesseri antiparlamentari, ereditati dai suoi "maggiori", Mosca, Pareto e Michels). Ma entrerà presto nel linguaggio pubblico, declinato così a sinistra (Salvemini, il Mondo di Pannunzio, Pannella) come a destra (Sturzo, Panfilo Gentile, il Borghese di Longanesi, Ansaldo e Montanelli), per assurgere, negli anni Settanta, addirittura a cavallo di battaglia del neofascista Almirante. Senza dimenticare i casi più estremi. Ad esempio, il Memorandum sulla situazione politica in Italia e il Piano di rinascita democratica, stilati dalla loggia P2 nell'imminenza delle elezioni del 1976. Oppure, le memorie dei brigatisti rossi, punteggiate da «una serie di parole chiave oggi tanto in voga – "casta", "partitocrazia", "palazzo" – utilizzate retrospettivamente per giustificare le azioni compiute contro il sistema dei partiti» (Miguel Gotor).
In secondo luogo, del termine "partitocrazia" occorre distinguere due usi principali. Uno accademico, alla Maranini. L'altro polemico-giornalistico, alla Montanelli, forse il personaggio più in sintonia con i malumori del paese (almeno sino al '94). Ma spesso questi due usi s'intrecciano. Per esempio, il politologo Gianfranco Miglio, già inascoltato autore negli anni '80 di un progetto di riforma costituzionale in grado, sulla carta, di neutralizzare lo strapotere dei partiti (da lui paragonati a «cosche mafiose»), diventerà poi «l'ideologo» della nascente Lega Nord («Siamo il veleno nelle vene dei partiti», proclamerà un Bossi di primo pelo), salvo allontanarsene dopo aver gustato l'acre sapore della stanza dei bottoni.
In terzo luogo, la storia dell'antipartitocrazia gronda sanguinanti sconfitte. Lupo percorre due binari paralleli. Da un lato, la politica ufficiale, rappresentata dai partiti famelici e correntizi. Dall'altro, la società civile, che astrologa su una "nuova politica" capace di falciare i tentacoli della piovra partitocratica. Con risultati magrissimi. Come scalare una montagna e puntualmente precipitare. La stessa Seconda Repubblica, sorta nel '94 per riscattare i cittadini onesti dalle ruberie dei loro delegati, s'è rivelata una mediocre caricatura della Prima. Chi si ricorda più dei referendum elettorali anti-partitocratici lanciati con successo nel 1990-93 da Mario Segni? Un democristiano anomalo, a capo d'un cartello composito, nel quale convivevano Scalfari e Montanelli.
Proprio Montanelli incarna al meglio il rapporto schizofrenico intrattenuto dagli italiani con i partiti. Le sue cinquantennali filippiche contro il morbo partitocratico occuperebbero un grosso tomo. Eppure, al sopraggiungere delle elezioni, Indro non restava mai a casa. Nel '76 invitò i suoi lettori a «turarsi il naso e votare DC». Ma ancora negli anni '90 sceglierà l'Ulivo, come male minore rispetto a Berlusconi. E prima – nel 1954, sul «Borghese» – aveva ammesso d'aver votato De Gasperi alle due precedenti elezioni, ma «stringendomi il naso, per non sentirne il puzzo». Una cifra antropologica esemplificata da una vignetta che, il primo maggio 1951, campeggiava sulla copertina del foglio di Longanesi. Ritraeva due coniugi seduti su una panchina: il marito, timoroso d'essere sentito da altri, sussurrava all'orecchio della moglie: «Vota per la Democrazia Cristiana, ma non dirlo ai vicini».
Insomma tutti, a parole, hanno osteggiato la partitocrazia (lo fece pure Cossiga, che si trasformò in un presidente "picconatore" nell'ultimo anno e mezzo del suo settennato). Ma quando si tratterà di recidere per davvero la malapianta, molti abbozzeranno. Forse perché le sue radici sono inestirpabili, incistate nei nostri piccoli e grandi privilegi. Non è un caso che i movimenti "millenaristici", dall'Uomo Qualunque in poi, abbiano ballato una sola estate, o giù di lì. Per capire come mai, basta rileggersi la farsa di Ennio Flaiano, Un marziano a Roma ('54), in cui si rispecchia la parabola d'ogni tribù purificatrice, presto risucchiata nello stesso sistema che prometteva di rivoltare come un calzino. Finirà così anche con il grillismo?
Per concludere, in agrodolce. La democrazia dei partiti, in Italia, è stata la peggior forma di governo possibile, a eccezione di tutte le altre. In fondo, ricorda Lupo, il nostro è «l'unico paese mediterraneo (se non consideriamo tale la Francia) ad aver conservato ordinamenti democratici per tutta la seconda metà del Novecento». Dovremmo accontentarci?
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Salvatore Lupo, Antipartiti. Il mito
della nuova politica nella storia della Repubblica (prima, seconda e terza), Donzelli, Roma, pagg. 248, € 19,00

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