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Questo articolo è stato pubblicato il 05 dicembre 2013 alle ore 23:22.
L'ultima modifica è del 06 dicembre 2013 alle ore 08:19.

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Nelson Mandela e Bono Vox, il leader degli U2. (Afp)Nelson Mandela e Bono Vox, il leader degli U2. (Afp)

Come icona avrà pesato più o meno di Gandhi sulla storia del Novecento? Largo al dibattito, ai posteri l'ardua sentenza. Su una cosa, però, toccherà convenire: nessuna figura politica del cosiddetto secolo breve ha ispirato tanta musica come Nelson Mandela. Da un lato gli artisti africani che sbandieravano il suo volto in tutto il mondo come simbolo della battaglia per l'uguaglianza tra uomo e uomo. Dall'altro le rockstar di fama mondiale che hanno fatto propria la causa contro l'apartheid scrivendo canzoni, facendo concerti, raccogliendo fondi.

Qualcuno dirà che il rock è servito a cambiare il Sudafrica. Forse sarebbe più giusto dire che Mandela ha cambiato il corso della storia del rock. In più di un'occasione. Nessun personaggio, tanto per cominciare, ha avuto più tribute live dedicati. Per quello del suo settantesimo compleanno, datato 1988, i Simple Minds comporranno pure un brano originale, «Mandela Day». Ma possiamo partire da più lontano: nel 1968 i Byrds sono una delle maggiori band in attività. Nel bel mezzo di un tour nel Regno Unito Gram Parsons, loro nuovo chitarrista e cantante, ispiratore della svolta country, li pianta in asso. Motivo: il gruppo di lì a qualche giorno avrebbe dovuto esibirsi in Sudafrica. «Io non suono dove c'è l'apartheid», dirà Parsons dopo aver chiesto asilo politico nei Rolling Stones. Sulla sincerità di questa presa di posizione si discuterà a lungo. Ma Gram diventa di fatto il primo musicista country a meritarsi la stima del popolo afroamericano.

La «Guerra» del reggae
Gli anni Settanta sono il decennio in cui il mondo si accorge del sogno panafricano del reggae. Mandela è in cella, ma i suoi ideali illuminano gli occhi del profeta rastafari Robert Nesta Marley: «Finché la filosofia/ che ritiene una razza superiore/ e un'altra inferiore/ non verrà finalmente/ e in modo permanente/ screditata/ e abbandonata/ ci sarà la guerra ovunque». È un «I have a dream» al contrario quello che Zio Bob intona in «War». Un inno che collega idealmente Kingston a Robben Island e fa vacillare persino le coscienze più insensibili. Il movinemtno anti-apartheid cresce e continua a fare proseliti illustri da una parte all'altra dell'Atlantico: tra le sue icone accanto a Mandela compare Steve Biko, leader del Movimento per la coscienza nera che nel 1977 muore a seguito delle torture subite in stato di detenzione. L'ex Genesis Peter Gabriel ne celebra la memoria in «Biko», puntando il dito contro le contraddizioni del regime di Pretoria.

Artisti uniti contro l'apartheid
Per i più gli anni Ottanta rappresentano il decennio del disimpegno, ma mai come in quel decennio si concentrano i tributi a Mandela e gli endorsement musicali alla sua causa. Nel 1984 esce «Free Nelson Mandela», singolo degli Specials, alfieri dello ska Made in Coventry. Ritmo il levare e cori afro: si balla per cambiare il mondo. Il capolavoro di mobilitazione, tuttavia, riesce un anno più tardi a Little Steven, chitarrista della E-Street Band di Bruce Springsteen che aggrega intorno a sé il gotha del rock nel progetto Artists Against Apartheid. Un intero album, «Sun City», per dire basta: dalla title track corale che mette in fila, secondo una formula molto in voga all'epoca, stelle di prima grandezza come Bob Dylan, Jackson Browne, Lou Reed, George Clinton, Ringo Starr e lo stesso Boss a «Silver and Gold» che vede il leader degli U2 Bono misurare la propria rabbia sulle chitarre di Keith Richards e Ronnie Wood, fino a Peter Gabriel che grida «No more apartheid».

Orgoglio africano
La tromba la suona un certo Miles Davis, ossia il jazz fatto persona. Quell'esperienza, in un certo senso, lo segna: nell'86 uscirà «Tutu», un concept album di fusion interamente dedicato alla causa sudafricana. A cominciare dal titolo, omaggio a Desmond Tutu, primo arcivescovo anglicano nero di Città del Capo. Nella tracklist c'è «Full Nelson», elegia funk per il leader in prigione. Pur essendo nato ad Alton Illinois il vecchio Miles sentiva forte il legame di sangue con l'Africa. E a quelle latitudini Mandela è un eroe assoluto. Provate a chiedere a Eddy Grant, reggae man della Guyana che nell'estate dell'88 ha fatto ballare il mondo con l'inno «Gimme Hope Jo'anna». O a musicisti sudafricani come il trombettista Hugh Masekela che un anno prima invocava «Bring Back Nelson Mandela» e a Brenda Fassie che lo chiamerà con orgoglio e affetto «My black president». O a Cedric Samson, virtuoso della batteria che per giunta è bianco. È stato lui a celebrarlo come «Son of Africa, Father of our Nation». Quando si dice il dono della sintesi.

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