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Questo articolo è stato pubblicato il 09 giugno 2013 alle ore 08:36.

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Carlo Melzi d'Eril
e Giulio Enea Vigevani
Se ti rubano la vecchia e cara bicicletta, che con tanta cura avevi legato a un alto palo della luce, l'ordinamento si incarica di punire severamente il colpevole. È, infatti, da uno a sei anni, oltre alla multa, la pena per il furto con violenza sulle cose. E accade di frequente che ladri di biciclette vadano in carcere, senza che ciò provochi particolari reazioni nell'opinione pubblica. Solo al cinema invero, nel gran film di De Sica, ci si è commossi nel veder uno di loro evitare la galera, grazie alle lacrime di un bambino.
La stessa pena, da uno a sei anni, è prevista per chi diffama con il mezzo della stampa, attribuendo un fatto determinato. Nell'ottica della persona offesa, la sanzione non sembra esagerata, anzi: senza dire con l'Otello «ho perduto la reputazione la parte immortale di me stesso e ciò che rimane è bestiale», l'onore val ben una bicicletta.
Il «castigo» è severo ma, sono rarissimi i casi di giornalisti passati per il carcere e alti i lamenti quando ciò accade.
Si cita sempre che Giovannino Guareschi trascorse più di un anno in prigione, senza mai chiedere la grazia, a causa di due sentenze: la prima nel 1950, per aver pubblicato una vignetta sul Presidente Einaudi, ritenuta lesiva dell'onore dell'istituzione, la seconda nel 1954, peraltro mai appellata, per aver diffamato De Gasperi.
Molto ricordate sono anche le vicende giudiziarie di Lino Jannuzzi. Alla fine degli anni Sessanta, fu condannato insieme a Eugenio Scalfari a più di un anno di reclusione, per diffamazione del generale De Lorenzo, a seguito dell'inchiesta de L'Espresso, ove fu svelata l'esistenza del «Piano Solo»; i due giornalisti furono salvati dal carcere grazie all'elezione nelle file dei socialisti alle politiche del 1968. Un quarto di secolo più tardi, Jannuzzi fu di nuovo condannato a due anni e cinque mesi per il medesimo reato e, eletto parlamentare nel 2001, non entrò in prigione ma scontò parte della pena ai domiciliari, sino alla grazia.
Non molti altri giornalisti in età repubblicana hanno varcato la soglia delle patrie galere per reati a mezzo stampa; l'ultimo risulterebbe essere il direttore di un periodico campano, detenuto per più di un mese nel 2010.
Miglior sorte ebbe nel 2012 Alessandro Sallusti, condannato a un anno e due mesi per aver concorso a diffamare un magistrato torinese, senza condizionale in ragione della gravità del fatto e dei precedenti penali dello stesso. La pena detentiva fu infatti commutata in multa dal Presidente della Repubblica, dopo che il giornalista aveva trascorso alcuni giorni in detenzione domiciliare.

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