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Questo articolo è stato pubblicato il 20 giugno 2013 alle ore 07:24.

Il mistero (e l'ossessione) dei marchi. La severa legge delle economie di scala. I nuovi equilibri geofinanziari. La globalizzazione ha modificato, negli ultimi vent'anni, il profilo dei mercati finali e la gerarchia dei sistemi industriali. In ogni comparto. Nella moda e nel tessile, il nuovo ordine delle cose ha sperimentato un cambiamento radicale e dagli effetti duraturi. Intersecandosi con un fenomeno strutturale dell'economia e della società italiana: la consunzione del modello della grande impresa, dominatrice dei nostri assetti fino agli anni Ottanta, e l'incapacità di elaborare prima, dal punto di vista strategico, e di costruire poi aggregati – industriali, logistici e commerciali – in grado di operare come piattaforme globali.

Ppr, prossima a diventare Kering, e Lvmh non sono soltanto holding che contengono cespiti preziosi come alcuni dei più noti marchi al mondo: da Gucci a Saint Laurent, da Brioni ad Alexander McQueen, da Louis Vuitton a Marc Jacobs, da Kenzo a Fendi. Sono gigantesche macchine commerciali e distributive in cui i marchi diventano delicati ingranaggi in grado di porre in relazione l'abilità tattile e manuale di secoli di artigianato con i dollari dei fondi di investimento americani o cinesi, i grandi numeri necessari a servire i mercati globali con le infrastrutture commerciali e logistiche indispensabili a raggiungere i consumatori. In un contesto internazionale segnato da gigantismi logistico-produttivi e da una finanziarizzazione dei marchi, il sistema industriale italiano prova a trovare una propria collocazione non eccessivamente difensiva. Nel nostro Paese trovi imprese sviluppatesi negli anni Settanta e Ottanta che hanno mantenuto una loro indipendenza – Armani, Versace, Prada o Ferragamo – e che non hanno mai espresso una forza aggregatrice e la capacità – o la volontà – di trasformarsi in "macchine mondiali".

Ci sono i marchi storici assorbiti nei grandi gruppi, spesso a controllo francese. E, poi, ti imbatti in una miriade di Pmi attive fra il tessile e la moda che sono il riflesso, in questo comparto, della fisiologia industriale italiana, composta soprattutto da medie imprese internazionalizzate (il Quarto Capitalismo studiato e teorizzato dall'ufficio studi di Mediobanca) e da piccoli produttori che formano il tessuto – insieme caotico e vitale, fragile e resistente – del nostro capitalismo manifatturiero. Il quale, soprattutto in questo comparto, si trova a pencolare fra due alternative: connettersi alle catene della manifattura globale diventando una fornitura de luxe oppure provare a sviluppare con i marchi un profilo identitario autonomo. «Un profilo identitario delle singole imprese – riflette un maestro dello stile italiano come Nino Cerruti – che è un fenomeno sia economico sia culturale. La spettacolarizzazione, l'edonizzazione e la ricerca del successo individuale sono fenomeni antropologici e sociologici pervasivi che non possono non avere ricadute sulle strategie delle imprese. Anche se, razionalmente, sai che investire sul marchio comporta oneri finanziari rilevanti, lo fai perché la tua scelta definisce chi sei. Come uomo, oltre che come imprenditore.

Questo non vale soltanto in Italia. Vale ovunque». Nel multiforme tessuto produttivo italiano, la cui base rischia di essere erosa dalla recessione, il marchio ha dunque un significato non uniforme. Anche dal punto di vista prettamente economico. Nota Elisabetta Merlo, docente di Storia economica alla Bocconi di Milano e autrice del volume Moda italiana. Storia di un'industria dall'Ottocento ad oggi: «Le politiche di brand per i piccoli e medi produttori italiani costituiscono spesso una scelta difensiva. Il marchio diventa il necessario complemento della riduzione dei costi che, purtroppo, in una recessione tanto dura diventa indispensabile». Il marchio, però, non costituisce soltanto una tattica difensiva di natura congiunturale, ma può essere pure un valore prospettico. «È chiaro che più ci si avvicina al consumatore finale, più aumentano i rischi e più crescono i margini», dice Claudio Marenzi, proprietario a Lesa, sul Lago Maggiore, della Herno, e presidente designato di Sistema Moda Italia. La sua impresa di famiglia, quindici anni fa, sviluppava l'85 per cento del fatturato lavorando per altri. Adesso, su ricavi pari nel 2012 a 33,5 milioni di euro, 31 milioni sono riferibili al marchio Herno, che dai tradizionali impermeabili è passato ai giacconi, ai cappotti e a quanto appartiene al luxury casual. Soltanto 2,5 milioni di euro sono realizzati con prodotti che, poi, finiscono nei negozi con sopra stampigliate celebri griffe.

«Di certo – continua Marenzi – l'evoluzione più razionale è quella. Anche se, ogni volta che fai uno step verso il consumatore finale, servono risorse ingenti. E, in questo, è molto difficile pensare di mantenere in toto il controllo dell'azienda. Non a caso alcuni decidono di cercarsi un socio forte, industriale o finanziario». Dunque, ancora una volta, le particolari geometrie del capitalismo italiano – in cui la sub-ottimalità tende a realizzarsi in dimensioni piccole e medie – e il non semplice accesso al capitale di rischio (come nella realtà anglosassone) o all'equity di investitori istituzionali (magari di natura protobancaria, come in Germania) rendono molto complessa la costruzione di assetti produttivi e logistici di grandi dimensioni. C'è, poi, una dimensione culturale profonda, che afferisce alla natura più intima del modello imprenditoriale italiano. «L'imprenditore italiano, anche nel tessile e nella moda – nota Salvo Testa, docente di fashion management alla Bocconi di Milano – non riesce a rinunciare alla propria individualità». Qualunque processo di crescita, che sarebbe indispensabile per avere le risorse con cui piccoli produttori possono sviluppare brand noti e da lì costruire catene di negozi oggi indispensabili per fare i soldi veri, viene eliminato alla radice dalla incapacità tutta italiana di "annullarsi" dentro progetti industriali e commerciali più ampi.

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