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Questo articolo è stato pubblicato il 21 giugno 2013 alle ore 08:15.

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Se c'è una cosa da dire riguardo a questi autobus Greyhound è che a bordo c'è sempre la stessa puzza disgustosa. Un odore misto di latrina, erba e tabacco bruciato. Non di fumo, proprio tabacco bruciato. Negli ultimi giorni ho capito che si tratta dei mozziconi di sigaretta spenti e infilati nei pacchetti di American Spirit, quelle più economiche e con il profilo del capo indiano, pronti per essere riaccesi alla prossima fermata. E sì che di fermate con i miei compagni di viaggio ne abbiamo fatte a decine nelle ultime settimane, fra piccole stazioni con il tetto in lamiera, diner di campagna che servono pomodori verdi fritti e parcheggi di fast food nel cuore del deserto.

A bordo di queste scatole di latta con il levriero sulla fiancata ho attraversato l'America rurale e le grandi città del Midwest, dall'Oceano Atlantico al Pacifico, per capire come stanno cambiando in questo Paese i diritti gay e la percezione dell'omosessualità alla vigilia della sentenza della Corte Suprema, che per la prima volta a fine giugno si esprimerà sui matrimoni fra persone dello stesso sesso. Non avrei potuto mettermi in viaggio se non fosse stato per i lettori del mio blog, il Trading Post, che mi hanno donato 5.000 dollari grazie a una colletta online, il crowdfunding.

E così ho lasciato New York a metà maggio, nel cuore della notte. Ho sempre provato un piacere particolare a partire di là mentre quasi tutti dormono, con i taxi che sfrecciano sulle grandi avenue deserte, gli ultimi ubriachi che tornano a casa barcollando e i barboni che dormono nei loro letti di cartone. Intorno c'è solo il rumoroso silenzio di New York, dove a irrigidire il sonno sono l'ululato dei condizionatori appesi alle finestre, le sirene della polizia e lo stridulo freno della metropolitana che non si ferma mai e che riecheggia da sotto i marciapiedi. A Port Authority, quella notte, non parlava nessuno. C'erano solo volti ingrigiti e occhi fissi nel vuoto, tutti pronti a imbarcarsi verso l'Ohio, dove tutti hanno una storia triste da raccontare. Poi siamo partiti e abbiamo oltrepassato il Lincoln Tunnel. Mentre ci allontanavamo sul New Jersey Turnpike abbiamo visto sfuggire le luci di Manhattan sul finestrino e ci siamo infilati in America.

Quella notte abbiamo passato Philadelphia e le colline boscose della Pennsylvania poi, quando è spuntato il sole, eravamo già fra i sobborghi desolati e i ponti di acciaio di Pittsburgh, una piccola meraviglia industriale. I primi raggi di sole arrivano sempre troppo presto, quando si viaggia a bordo di questi autobus. Le giornate si dilatano e sembrano infinite. Qualche ora più tardi è apparso il pugno di grattacieli che compone il centro di Columbus, in Ohio, dove, nel bagno della stazione, ho incontrato un uomo che urinava con un mantello viola sulle spalle e una corona argentata in testa. Poi si è allacciato i pantaloni, si è seduto su una sedia a rotelle a motore, ha ingranato la marcia ed è sparito.

A Nashville, pochi giorni dopo, stavo aspettando l'autobus fuori dalla stazione. Un ragazzo si è avvicinato chiedendomi senza esitazione se fossi ebreo. Era appena uscito di galera, e stava tornando in Florida dalla sua ragazza. Era stato arrestato dopo una rissa in un locale di Orlando, in Florida. Sono salito sull'autobus diretto in Mississippi pensando a lui, al figlio che gli sta per nascere e al perché tutti gli ex carcerati, appena usciti di prigione, salgono sui Greyhound per tornare a casa dalle proprie donne.
S'incontra ogni sorta d'anima, a bordo di questi autobus. È un'America diversa, fatta spesso di piccoli trafficanti di droga, immigrati senza documenti, persone senza denti o veterani di guerra senza soldi ma con tatuaggi sbiaditi. A bordo c'è sempre cupa insofferenza, silenzio e desiderio di arrivare. Scendendo verso Jackson, Mississippi, abbiamo attraversato una natura rigogliosa e fiera, con solo qualche sporadico tratto d'umanità: case di legno malmesse raggiunte da stradine polverose e sterrate, chiese di campagna dipinte di bianco, fattorie con fienili traboccanti e poi le insegne dei McDonald's, che vegliano come campanili su grandi parcheggi deserti.

In Alabama ci siamo fermati per dieci minuti in una modesta area di servizio appena fuori Athens, con una pompa di benzina che allungava un po' d'ombra sul piazzale. Uno dei miei compagni di viaggio era un cowboy del Montana di origine messicana, con un giacchetto di pelle pieno di spille, la testa rasata e baffi curati. Lavora nell'industria del petrolio e mi ha parlato del boom del petrolio, su al Nord. Prima ripartire si è avvicinata un'anziana signora, magra e con i capelli platinati. Ha donato a tutti un piccolo opuscolo che invitava a sorridere, perché «Gesù ti ama». Poi ha raccontato di venire qua tutti i giorni ad aspettare gli autobus, per portare un po' di fede ai viaggiatori.
Fra il Mississippi e il Kansas, e poi di nuovo a sud verso il Texas, ho visto per giorni solo una campagna ripetitiva e rigogliosa, fra praterie, campi coltivati e fattorie. Poco prima di arrivare a Dallas, un uomo enorme con la testa lucida mi ha chiesto di usare il mio telefono per chiamare una donna che però non risponde. Si chiama Marcus, ha paura di restare bloccato alla stazione e ha due lacrime tatuate sotto l'occhio sinistro. Dicono che ognuna di quelle lacrime sia un uomo che hai ucciso, oppure una persona cara che hai sepolto.

Quando il Texas sta ormai per finire, l'America cambia ancora. Entriamo nel vecchio West, con i ranch, le montagne in lontananza e un vecchio treno merci che sbuffa nel mezzo di una pianura desertica e cespugliosa. A bordo non c'è più l'atmosfera buia degli autobus del Midwest, ma il sorriso e la cordialità dei messicani e l'eccitazione della West Coast. In California costeggiamo a lungo la frontiera, attraversiamo deserti e parchi naturali, poi cominciamo a salire fra le rocce, superiamo un valico e cominciamo a correre nel verde, in direzione di San Diego. È l'ultimo sforzo di questo autobus, e delle decine su cui sono salito prima di questo, per raggiungere il Pacifico.

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