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Questo articolo è stato pubblicato il 23 giugno 2013 alle ore 08:42.

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Racconta il canonico Dunoyer, che era solito far visita con monsignor Billiet all'amico Alessandro Manzoni, che lo scrittore era solito riceverli seduto in poltrona e che faceva disporre accanto a sé una sedia alla quale appoggiare il braccio. Si trattava di una strategia per combattere i frequenti attacchi di vertigini di cui soffriva, la sedia era un'àncora mediante la quale assicurarsi alla terra: egli infatti «aveva l'impressione di essere sul bordo di un abisso». Manzoni aveva iniziato a soffrire di agorafobia da quel 2 aprile 1810, a Place de la Concorde, a Parigi quando, durante i festeggiamenti per le nozze di Napoleone e Maria Luisa, a seguito dello scoppio di alcuni petardi e di un disordine creatosi tra la folla, l'amatissima moglie Enrichetta Blondel gli svenne tra le braccia e lui stesso fu colto da una crisi nervosa. L'unica "cura" era quella di fare delle lunghe passeggiate, durante le quali, però, pretendeva di essere sempre accompagnato: «La salute incostante del mio caro Alessandro – confessa Enrichetta – è anche la causa del poco tempo che posso avere per me, perché le angosce nervose che prova non gli permettono di restar solo un momento». Il volume di Paolo D'Angelo, Le nevrosi di Manzoni, è un'occasione straordinaria per conoscere i retroscena della personalità umana e poetica dello scrittore più rappresentativo del l'800 italiano.
Con eleganza e preziosa erudizione – impressionante la ricerca delle fonti epistolari – D'Angelo dipinge il ritratto di uomo difficile, calato in un quotidiano angoscioso, del quale egli attribuisce ogni colpa all'immaginazione: «Vedo molto bene – così Manzoni – che l'immaginazione ha un grosso ruolo nei miei timori, ma questo nemico non basta conoscerlo per averlo vinto». La tesi di D'Angelo è che vi sia una stretta correlazione tra l'agorafobia di Manzoni, la sua paura di trovarsi in uno spazio libero, da una parte, e le sue posizioni teorico-letterarie, assai critiche nei confronti della libera immaginazione poetica, dall'altra. Il risultato di questo dissidio è la radicale battaglia condotta dallo scrittore milanese contro la letteratura di invenzione, giacché egli riteneva che ogni elaborazione letteraria dovesse fondarsi rigorosamente sul vero storico, senza mai discostarsene, se non in casi eccezionali. Il tradizionale rapporto dialettico tra storia e poesia viene dunque risolto da Manzoni tutto a favore della storia, la quale funge da "àncora" al mondo reale. Nella tragedia Il Conte di Carmagnola, per esempio, frutto di laboriose ricerche storiografiche, egli si scusa coi lettori per avere dovuto "inventare" un episodio centrale del dramma, dal momento che non aveva potuto trovare alcuna fonte relativa a questo fatto. In numerosi scritti teorici, poi, egli ribadisce come sia un dovere morale per lo scrittore attingere alle fonti storiche per costruire un'opera romanzesca, cosa che egli fece nella composizione del romanzo Fermo e Lucia, mentre è indecoroso coltivare quella «fantasia isolata e arbitraria di chi si chiude nel suo studio per fabbricare pezzi di storia a seconda del suo gusto». Nell'epoca che più di ogni altra elogiò la libertà creatrice del poeta, Manzoni faceva eccezione e insisteva in un errore concettuale piuttosto evidente: scambiare la "finzione" letteraria per "falsità".
Ciò che non gli era chiaro è che la finzione non è falsa, come afferma lo stesso Aristotele, in quanto rappresenta la vita in maniera universale, osservando criteri diversi di verità. Goethe in una lettera criticò a Manzoni l'abitudine di distinguere, nei suoi drammi, i personaggi storici (realmente esistiti) da quelli ideali (inventati), come se inventare fosse una colpa di cui vergognarsi. Ma Manzoni non mutò opinione e restò abbarbicato alla sua posizione come alla sua sedia. E, per non dovere inventare nulla, finì con il non scrivere più nulla.
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Paolo D'Angelo, Le nevrosi di Manzoni. Quando la storia uccise la poesia,
il Mulino, Bologna, pagg. 212, € 19,00

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