Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 23 giugno 2013 alle ore 08:46.

My24

Per quale motivo si prova sempre un così forte interesse nei confronti dei festival «Teatri del Sacro», pur senza essere necessariamente credenti? Per quale motivo, al di là degli incanti di Lucca, la città che lo ospita, se ne riparte ogni volta con l'impressione di averne ricavato qualcosa di importante su cui riflettere? Perché questa rassegna, che raccoglie i fermenti più vivi della scena italiana di oggi, lo fa invitandoli a misurarsi su un tema comune, ponendo a confronto le differenze degli stili e dei linguaggi che conducono, attraverso la sacralità del teatro, a un concetto del sacro più alto e assoluto.
La molteplicità degli approcci, delle tecniche rappresentative non costituisce mai unicamente un puro fatto formale. Capita invece, per il suo tramite, di cogliere dei singolari cortocircuiti dialettici: c'è chi, ad esempio, arriva dall'esteriorità più estrema a una sofferta interiorità, e viceversa; c'è chi, partendo da un'astratta spiritualità, riesce a parlare direttamente di se stesso, e chi partendo da se stesso si addentra nei territori di un'accesa spiritualità. C'è chi dimostra, per paradosso, come si possa approdare a un'affermazione di quest'ultima passando proprio dalla sua negazione.
Non sorprende, dunque, che Valter Malosti abbia scelto di affrontare i brucianti versi di Clarel - un poema di Herman Melville su un inquieto pellegrinaggio in Terra Santa - nella forma della performance vocale scandita dalle squassanti sonorità elettroniche di G.u.p. Alcaro e dagli strumenti a corde di Lucia d'Errico, su musiche originali di Carlo Boccadoro. Sorprende invece come egli riesca a suggerire l'intensità di una passione religiosa proprio attraverso il suo contrario, una febbrile ricerca della fede destinata a un inesorabile fallimento.
L'estroso Roberto Abbiati, affiancato da Luca Salata, racconta ne La radio e il filo spinato il sacrificio di padre Kolbe, e più in generale la tragedia dei lager, puntando su una recitazione impassibile, straniata, e affidandosi a uno struggente uso degli oggetti, un lampadario, una ruota di bicicletta, un bollitore sibilante: mentre la parola rivela una sorta di riluttanza di fronte all'enormità del male, la sagoma lignea di un deportato trasformato in agghiacciante marionetta si carica di una forza emotiva tracimante, esprimendo il dolore umano più di qualunque attore in carne e ossa.
Nei Canti del guardare lontano di Teatrino Giullare gli oggetti, le marionette, le sculture - un cavallino alato, un cappello di stelle, un'ingegnosa mongolfiera incoronata di lumini, che appaiono sul tetto di una metaforica casa - sono, invece, il prolungamento fantastico della parola, l'equivalente visivo della scrittura immaginifica di Giuliano Scabia: il suo testo è infatti un viaggio iniziatico verso la culla delle galassie, verso l'inizio del tempo, all'origine stessa della vita.
Non è male l'idea del gruppo napoletano Teatri35, che in Labirinto traspone le vicende evangeliche nel puro gesto, nel silenzio di immobili tableaux vivants che riproducono dipinti di Caravaggio o di Piero della Francesca: il dinamismo dell'azione si raggela in una tensione trattenuta, la fase preparatoria è più importante della composizione definitiva. È un puro flusso verbale, all'opposto, il monologo in cui Margherita Antonelli incarna il buffo punto di vista di un'amica di Maria, che giudica Gesù un bravo ragazzo un po' strambo, e ne disapprova certi eccessi, certi atteggiamenti da esaltato.
Ma lo spettacolo che mi ha più colpito, fra quelli proposti nelle prime sere, è stato senza dubbio T/Empio - critica della ragion giusta, la nuova creazione di Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi, la coppia messinese già rivelazione del Premio Scenario 2011. I due sono un fenomeno a sé stante fin dai peculiari tratti naturali: entrambi piccoli, un po' sghembi, sanno unire le risorse di una fisicità stralunata a un'insolita capacità di costruire dialoghi dall'andamento acremente surreale, a metà fra un teatro dell'assurdo vecchia maniera e una grottesca esasperazione delle loro relazioni quotidiane.
Qui l'incalzante scambio di domande e di risposte con cui tentano di sopraffarsi a vicenda prende le mosse dall'Eutifrone di Platone: ma il dibattito tra Socrate e il suo interlocutore su ciò che è sacro e ciò che è empio, su ciò che è giusto o non giusto diventa una bizzarra disputa fra due sconosciuti nelle vie di una città, poi un toccante specchio del personale interrogarsi dei due attori, del loro essere insieme nella vita e nell'attesa della morte, separate da una simbolica porta da varcare.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi