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Questo articolo è stato pubblicato il 25 giugno 2013 alle ore 07:09.

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Dal Vangelo secondo Matteo, capitolo 23, versetto 30: «Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti». Lo dicevano gli scribi e i farisei, e indovinate cosa facevano intanto? Complottavano per uccidere un altro profeta, l'ennesimo.

«Se fossimo vissuti al tempo del caso Tortora, non ci saremmo associati ai magistrati, ai pentiti e ai giornalisti», lasciano intendere i nuovi sepolcri imbiancati, che fanno i maestri di garantismo retrospettivo mentre agitano le manette per gli imputati di oggi. L'umanità è piuttosto prevedibile, e la storia – specie la storia italiana – terribilmente monotona. Tortora, che agli arresti domiciliari passava il tempo leggendo antiche cronache, si era convinto che il suo caso fosse la pedissequa ripetizione del caso Cuocolo, un processo di camorra del 1908, solo che lì i pentiti si chiamavano «ravveduti» e al posto di Pandico c'era un certo Abbatemaggio detto «O'nfamone».
La storia è così monotona da venire a noia, e tra i venticinque anni dalla morte di Tortora (18 maggio 1988) e i trenta dal suo arresto (17 giugno 1983), ci siamo dimenticati di un altro anniversario: il sessantennale del caso Montesi. Eppure in quel processo c'erano in nuce tutti i processi italiani, da Tortora a Mani pulite, e tutti i nodi che sarebbero venuti al pettine (se non fosse, diceva Sciascia, che manca il pettine). Era tutto lì, in quell'inchiesta sulla ragazza trovata morta a Torvajanica, sul litorale romano, l'11 aprile del 1953. Al posto dei frigidi manuali di educazione civica, a scuola dovrebbero far studiare Dolce vita di Stephen Gundle (Rizzoli, 2012) o Il caso Montesi di Francesco Grignetti (Marsilio, 2006), due libri documentatissimi sul caso.

Chi aveva ucciso Wilma Montesi? Per vie imperscrutabili, i sospetti caddero su Piero Piccioni, figlio di Attilio, democristiano di spicco e allora ministro degli Esteri, che dovrà dimettersi per lo scandalo. Prove non ce n'erano, ma il giovane faceva vita dissoluta, era stato amante di Alida Valli e suonava il jazz, e tanto bastava a renderlo sospetto. Un settimanale satirico pubblicò in copertina il disegno di un piccione che teneva nel becco il reggicalze scomparso di Wilma (per Tortora, il giorno dopo l'arresto, Forattini disegnò un pappagallo in gabbia). Piccioni era sospettato insieme al marchese Montagna, che nella sua tenuta di Capocotta gestiva un giro equivoco e procacciava donne ai parlamentari. Sesso e affari, il terreno ideale per imbastire una grande tavola dove moralismo e tattica politica banchettavano a spese del diritto. «Capocotta sarà la Caporetto della borghesia», vaticinò Pietro Nenni in un discorso. Pietro Ingrao, sull'Unità, scrisse che «il caso giudiziario si è mutato in una seria "questione morale"», formula che avremmo risentito spesso. Un pool di giornalisti si dedicò a tempo pieno al delitto, chi diventando confidente dei magistrati, chi dei familiari, chi commissionando memoriali a pagamento. Man mano che il caso montava, spuntò una folla di mitomani e di testimoni improbabili contro il povero Piccioni. Raffaele Sepe, il giudice istruttore a cui era affidata l'inchiesta, diventò una star. I giornalisti lo adulavano, i giovani magistrati lo prendevano a modello. Era vanitoso, al punto che passò a un cronista le sue foto da neonato, da studente e perfino in tenuta da calciatore.

Ai giornalisti amici faceva intendere (ma senza dirlo mai) che era pronto a entrare in politica. Fu il primo grande domatore del circo mediatico-giudiziario, e annunciò a mezzo stampa il mandato di cattura per Piccioni, facendo infuriare il primo ministro Scelba. Un dossier commissionato dal capo della polizia denunciò l'esistenza di «un vero e proprio sistema di collegamento tra rappresentanti della stampa, ormai ben individuati, e l'organo d'istruzione giudiziario nonché il nucleo di carabinieri alle sue dipendenze». Quanto ai giornalisti, diedero prova del peggio di cui erano capaci: un quotidiano arrivò a pubblicare in prima pagina il certificato ginecologico che attestava la verginità della sorella di Wilma. Per tre anni, in Italia, non si parlò d'altro. E a proposito, il 21 maggio del 1957 Piero Piccioni fu assolto con formula piena.
Quanto a Tortora, non si soffermò molto sulle analogie tra il suo caso e il caso Montesi. Ma un dettaglio non gli sfuggì. Sapete chi c'era tra i tanti accusatori di Piccioni? Abbatemaggio, «O'nfamone» del processo Cuocolo, più vecchio di cinquant'anni. La storia italiana è una noia mortale.

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