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Questo articolo è stato pubblicato il 25 giugno 2013 alle ore 07:10.

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Cosa rende una città esattamente quella città? Quali sono i tratti che possono identificarla rispetto a tutte le altre? La risposta più ovvia è: gli aspetti salienti del tessuto urbano considerato nella sua interezza; quei monumenti che nel corso della storia recente o meno recente l'hanno resa identificabile e assolutamente unica. I simboli, dunque: Roma è definita dal Colosseo perché non c'è altro Colosseo: Parigi è rappresentata dalla Tour Eiffel perché non ve n'è traccia altrove – e così via.

La riconoscibilità cittadina si ridurrebbe così a pochissimi elementi: la massima povertà numerica contro la più alta concentrazione semantica.
In realtà le cose sono più complesse. L'anno scorso un gruppo di ricercatori della Carnegie Mellon Graphics ha fatto un interessante esperimento al riguardo, a cavallo fra psicologia, sociologia e geografia urbana, poi raccolto in un articolo dal titolo (appunto) What Makes Paris Look Like Paris? L'ipotesi di lavoro del team era questa: a definire la tipicità di un contesto urbano non sarebbero i grandi monumenti – che sono visibili solo in certi punti e certi luoghi, o al più riproducibili in chiave iconica – bensì alcuni pattern visuali ricorrenti lungo tutta l'area cittadina. Dunque non la Tour Eiffel ma i balconcini in ferro battuto che «fanno tanto Parigi».
L'efficacia di tale tesi è stata innanzitutto confermata sperimentalmente: di fronte a una serie di immagini stradali casuali (angoli di strada privi di segni di riconoscimento "forti") di cui solo la metà venivano dalla capitale francese e il resto da altre undici città, un gruppo di persone ha risposto correttamente quasi 8 volte su 10. A questo punto i ricercatori hanno studiato un algoritmo in grado di isolare automaticamente i pattern interessanti, a partire dall'enorme messe di immagini disponibile su Google Street View (la piattaforma ideale, perché si limita a fotografare in modo neutro strade e piazze senza alcun intervento selettivo).

Attenzione: la richiesta non era affatto banale, perché i risultati dovevano essere sia molto ricorrenti, sia al contempo informativi dal punto di vista geografico. Quindi non un marciapiede (molto ricorrente ma per nulla caratteristico) né il Louvre (immensamente caratteristico, ma unico). I dettagli tecnici del processo sono un po' complessi e ve li risparmio: in ogni caso, il risultato è stato testato nuovamente e con successo di fronte a un gruppo di persone; le immagini selezionate dall'algoritmo della Carnegie Mellon venivano associate nella grande maggioranza dei casi alla città corretta di provenienza. Suggerendo dunque che il riconoscimento di uno spazio urbano avviene più che altro a livello di dettagli ripetuti e molto caratterizzanti. (Proprio per questo, fra l'altro, il procedimento non si adatta bene alle città americane, la cui mancanza di coerenza stilistica e unicità architettonica rende poco utile questo approccio).
In sintesi: Parigi è Parigi perché ha dei balconi in ferro o delle finestre con ringhiere decorate – e non per la sua torre di metallo. Il diavolo dell'individuazione abita realmente nei dettagli: le «immagini da cartolina» hanno una pregnanza simbolica, ma non ci dicono granché sul resto dello spazio che le circonda.

Il lavoro della Carnegie Mellon è un grosso passo in avanti da molti punti di vista: da un lato aiuta a comprendere meglio i principi che regolano la percezione di uno spazio complesso; dall'altro consente di generare dei modelli urbani realmente efficaci, perché obbediscono proprio a tali principi. E quindi, ad esempio, quali dettagli inquadrare in un film (o ricreare in un cartone animato) per rendere al volo la natura di un determinato luogo. Come spiegano i cinque ricercatori, lo scopo finale del lavoro dovrebbe essere proprio quello di produrre una «narrazione stilistica della nostra esperienza visuale».
Ma non solo: l'algoritmo di ricerca può essere molto utile per la storia dell'arte (in base a quali dettagli identifichiamo la pittura fiamminga?), o la geografia tout court (quali sono i pattern ricorrenti del continente europeo?), o ancora l'estetica dei prodotti (cosa rende un prodotto Apple un prodotto Apple?), e così via. Il tutto con il vantaggio di un approccio computazionale: cioè in grado di isolare una discriminante effettiva dove prima c'era al più una sensazione.

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