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Questo articolo è stato pubblicato il 30 giugno 2013 alle ore 08:39.

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Per poter esprimere appieno il mio pensiero sulla religione – sono religioso ma non credente – devo necessariamente prenderla alla larga e fare, diciamo così, una sorta di prefazione sugli anni giovanili funestati dal fascismo banditesco, anarchico, distruttivo che qualcuno ha giustamente chiamato antislavo. Prima di affermarsi come forza governativa, il fascismo si manifestò infatti in tutta la sua intolleranza nella Venezia Giulia, dove diede sfogo al suo sciovinismo, incendiando le Case di cultura slovene e croate in Istria, distruggendo biblioteche e uffici. E diffondendo un'atmosfera di terrore anarcoide, fino ad arrivare a sparare nelle chiese dove il sacerdote pronunciava il sermone in sloveno.
Ma più di tutto fui segnato dall'impossibilità di apprendere e studiare nella mia lingua madre, lo sloveno, che fino ai primi anni di scuola elementare, sotto l'impero austroungarico, era cosa possibile. Fu come, riprendendo il titolo del libro dell'amico Sergio Salvi Le lingue tagliate, se fossi stato privato della mia lingua e costretto a usarne un'altra. A causa di questa violenza subita, d'un tratto mi tramutai in un pessimo studente, non certo perché non comprendessi le lezioni, ma per un senso di abulia, dovuta in parte a distrazione, in parte a indifferenza per ciò che mi veniva insegnato in un idioma per me straniero. Fu così che mia madre, che era una donna molto pia, ascoltò un'amica che consigliava di mandarmi in seminario per farmi prendere la maturità.
(...) Cominciai ad accorgermi che lo studio della teologia mi allontanava dalla vita normale, che non avevo modo di conoscere, il che mi si rivelava attraverso la lettura di opere letterarie classiche slovene che di tanto in tanto riuscivo ad avere in prestito. (...) Studiai per due anni la materia, ma continuavo a essere segnato dal dubbio nei riguardi della fede. (...) Alla fine decisi di lasciare teologia e fui allora abile alla leva: venni chiamato sotto le armi e finii con il reggimento assegnatomi, in Libia. (...) Ritornato a Trieste dopo l'8 settembre 1943, divenni militare fuggiasco per non aver ottemperato all'ordine di presentarmi al comando tedesco e mi unii alla lotta clandestina antinazista. Ero sergente. Ovviamente la Gestapo ne tenne conto: si finiva in campo di concentramento se non si accettava di combattere al loro fianco ma, nel mio caso, fu un testo antinazista trovato a casa mia dalla milizia slovena collaborazionista, che aveva una caserma a Trieste, ad aprirmi le porte del Lager.
Fu nel campo di Struthof-Natzweiler, nei Vosgi, che si rese vivo in me il fattore religioso. Il campo era fatto a terrazze. Sulla più bassa c'era il forno crematorio che era sempre attivo, durante il giorno con l'odore insistente, di notte con la fiamma sempre presente al di sopra del tubo metallico che serviva da camino. Una sera, adunati sulle terrazze, ebbi l'impressione che fossimo schierati in una piramide tra i monti votati al nulla. Pregai. Furono tre Ave Maria in sloveno, accompagnate dall'impegno a recarmi al santuario di montagna dedicato alla Madonna di Svete Višarje (il Monte Santo di Lussari, Luschariberg in tedesco, alto 1.700 metri) dove da studenti andavamo di nascosto e per studiare la nostra storia e letteratura. Fu l'unica volta che pregai, perché poi, grazie a un'infezione alla mano, potei entrare in contatto con il medico Jean Lareyberette, con cui ebbi un dialogo in francese. Grazie a ciò il dottore mi segnalò al dottor Poulsen e divenni il suo interprete, condizione che mi permetteva di saltare l'appello sui balconi scavati nella parete della montagna a 1.800 metri con la neve e con la pioggia. (...) È stato però l'aver visto gli innumerevoli scheletri di Natzweiler, Dachau, Dora, Harzungen e Bergen Belsen a farmi riflettere sull'onnipotenza e bontà di Dio. È stato lì che mi sono detto – come poi ho trovato scritto in Hans Jonas, il filosofo ebreo che s'interroga sul concetto di Dio dopo Auschwitz – che il male, la bontà assoluta e la somma potenza non possono stare insieme, uno dei due deve cedere: o la somma potenza o la somma bontà. Un cattolico si salverebbe dicendo che Dio ha creato l'uomo libero, quindi responsabile del male che fa. D'accordo, dico io, ma se parto dal presupposto che Dio, come essere divino, vede il futuro e accetta il male che gli uomini faranno – la terra che tremerà e li farà morire a migliaia, le pesti che mieteranno vittime a migliaia, il cancro che ucciderà in tutte le forme in cui potrà manifestarsi – escludo che sia sommamente buono. Non può essere buono un Dio che non rinuncia a creare un mondo simile. E se non può rinunciarvi, non è somma autorità, non è Dio.
Quindi concludo, con Einstein: se Dio è una divinità che del mondo non si interessa o, meglio, che non ha creato il mondo perché non ne aveva la facoltà né ne sentiva il bisogno – come dice Lucrezio o come prima di lui pensavano Eraclito e Parmenide, e più tardi Spinoza – allora egli non ha né intelligenza né volontà. Per citare sant'Agostino: Sine intelligentia creatorem o lumen superrationale. Sono rimasto con Spinoza, con Deus sive natura, con Spinoza spiegato eccellentemente da Giuseppe Renzi, Spinoza onesto e coraggioso che mette gli umani di fronte alla verità, affermando cioè che sono soli e devono trovare la maniera di vivere in società. Sì, ho cominciato a occuparmi anche del nostro destino dopo essere ritornato vivo dai campi. Ho osato mettere in dubbio l'insegnamento ricevuto, che da giovane accettavo come verità indiscussa laddove era invece, scoprii, tutta da discutere. (...) La mia posizione è analoga a quella dell'amico Stéphane Hessel, caro amico purtroppo scomparso. Quando domandarono al grande scrittore Mario Rigoni Stern che cosa fosse per lui la religione, rispose: «Fermarsi in silenzio nel bosco». Era ciò che facevo quando camminavo tra gli alberi sul sentiero che sale verso l'altipiano carsico; ora sono più modesto, e la mattina mi raccolgo davanti all'infinita distesa del mare.

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