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Questo articolo è stato pubblicato il 30 giugno 2013 alle ore 08:40.

Qualcuno dirà che ho semplicemente riformulato ciò che Adam Smith ha scritto nel 1776. Ma da allora sono accadute molte cose che hanno cambiato, corretto, sfidato e ampliato le sue intuizioni. Smith non si rese conto, per esempio, di vivere durante le prime fasi di una rivoluzione industriale. Non posso certo sperare di pareggiare la sua genialità, ma ho un grande vantaggio rispetto a lui: posso leggere il suo libro. Da quando sono state scritte, le sue teorie si sono accoppiate con quelle di altri.
Oltretutto mi sorprende constatare come in pochi riflettano su questo tumultuoso cambiamento culturale. Il mondo è pieno di gente convinta di essere sempre meno dipendente dagli altri, che starebbe meglio se fosse più autosufficiente, che il progresso tecnologico non abbia portato alcun miglioramento alle nostre condizioni di vita, che il mondo si starebbe sistematicamente deteriorando, o ancora che lo scambio di oggetti e idee sarebbe superfluo e irrilevante. Noto una profonda mancanza di curiosità fra gli economisti di professione (non mi annovero fra questi) nel definire la prosperità e nello spiegare come questo fenomeno sia emerso nella storia della nostra specie. Perciò ho deciso di appagare la mia curiosità scrivendo questo libro.
Scrivo in un'epoca di pessimismo economico senza precedenti. Il sistema bancario mondiale è arrivato sull'orlo del tracollo, è scoppiata un'enorme bolla creditizia, il commercio mondiale si è ridotto e in tutto il mondo la disoccupazione aumenta di pari passo con il decremento della produzione. L'immediato futuro si profila abbastanza sconsolante, e alcuni governi stanno pianificando un'ulteriore espansione del debito pubblico che potrebbe pregiudicare la prosperità della prossima generazione. Con mio enorme rimorso ho partecipato a una fase di questo disastro, in qualità di presidente non esecutivo della Northern Rock, una delle molte banche che si sono ritrovate a corto di liquidità durante la crisi.
Qui non parlo di quell'esperienza (secondo le clausole del mio contratto non posso farlo) che mi ha reso diffidente nei confronti dei mercati finanziari e al contempo favorevole ai mercati di beni e servizi. L'avessi saputo allora: alcuni esperimenti svolti in laboratorio dall'economista Vernon Smith e dai suoi colleghi hanno da tempo confermato che i mercati di beni e servizi rivolti al consumo immediato (hamburger e parrucchieri, per intenderci) funzionano così bene che è difficile idearli in modo che non riescano a produrre efficienza e innovazione; mentre i mercati finanziari sono così esposti al rischio di bolle e crolli che è difficile idearli in modo che funzionino.
Speculazione, esaltazione reciproca, ottimismo irrazionale, desiderio di procurarsi rendite facili e la tentazione della frode sono elementi che spingono tali mercati a gonfiarsi e poi affondare. Per questo nei loro confronti servono normative attente, un intervento che ho sempre caldeggiato. (Di converso i mercati di beni e servizi hanno meno bisogno di regolamentazioni.) Tuttavia ciò che ha reso la bolla degli anni duemila peggiore di quasi tutte le altre è stata la politica immobiliare e monetaria di alcuni governi, in particolare quello degli Stati Uniti, che hanno artificiosamente incanalato fiumi di denaro a basso costo verso prestiti a elevato rischio di insolvenza, e quindi anche verso gli intermediari della finanza. Come minimo le cause della crisi sono tanto politiche quanto economiche, ed è per questo che diffido anche di un eccesso di intervento dello Stato.
(Nell'interesse della massima trasparenza, desidero precisare che, oltre al settore bancario, in passato ho lavorato e tratto profitto anche dalla ricerca scientifica, dalla conservazione delle specie, dal giornalismo, dall'agricoltura, dall'estrazione carbonifera, dal venture capital e dagli investimenti immobiliari, fra le altre cose: tutte esperienze che potrebbero aver influenzato, e che di certo hanno formato, le mie opinioni su questi ambiti esposte nelle pagine che seguono. Tuttavia non ho mai ricevuto denaro per promuovere un determinato punto di vista.)
Secondo la teoria dell'ottimismo razionale il mondo uscirà dalla crisi attuale perché i mercati di beni, servizi e idee permettono agli esseri umani di specializzarsi e scambiare i frutti del proprio lavoro con onestà e a beneficio di tutti. Pertanto questo non è un libro di lodi incondizionate o condanne inappellabili di qualsivoglia mercato, ma è un'indagine volta a dimostrare come il "mercato" dello scambio e della specializzazione sia più vecchio e più equo di quanto si pensi, e a motivare l'ottimismo con il quale dovremmo guardare al futuro della razza umana. Sopra ogni cosa, è un libro sui benefici del cambiamento. Mi trovo in disaccordo soprattutto con i reazionari, di qualsiasi schieramento politico: i conservatori, che non amano i cambiamenti culturali, i progressisti, che disdegnano i cambiamenti economici, e i verdi, che diffidano dei cambiamenti tecnologici.
Sono un ottimista razionale. Razionale perché non sono arrivato a posizioni ottimiste per indole o per istinto, ma esaminando le prove. Nelle pagine che seguono spero di trasformare anche voi in ottimisti razionali. Innanzitutto devo convincervi che il progresso della razza umana è un fenomeno positivo e che, nonostante la nostra tendenza a lamentarci, il nostro pianeta è un posto bellissimo in cui vivere, almeno per l'essere umano medio: lo è sempre stato, e lo è persino oggi, in un'epoca di profonda recessione; che il mondo è più ricco, più sano e persino più "gentile" anche grazie al commercio, e non a dispetto di esso. Poi intendo spiegare come e perché sia diventato così. Infine voglio capire se possa continuare a migliorare.

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