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Questo articolo è stato pubblicato il 07 luglio 2013 alle ore 08:36.

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La corruzione è un male antico. Già Platone, nella Repubblica, distingue tra un oro incorruttibile, quello della conoscenza e del valore morale, e un oro che contamina, quello delle proprietà e dei beni materiali. E come antidoto propone che i "custodi" della città – i politici, diremmo noi – diano il buon esempio: non avranno proprietà private, mangeranno in mense comuni, e «solo a loro sarà fatto divieto di maneggiare o toccare oro e argento o di farne sfoggio».
Oggi non possiamo certo chiedere alla politica di abbracciare questa sorta di monachesimo (anche se il politico serio sa che il grande potere di cui viene conferito implica anche una sobrietà di vita). Possiamo però, anzi dobbiamo chiedere a tutti noi, a partire dalla politica, di fare qualcosa per arginare quel male antico e, ahinoi, sempre nuovo.
Per questo Libera e il Gruppo Abele hanno lanciato mesi fa la campagna «Riparte il futuro». L'obbiettivo era sensibilizzare l'opinione pubblica sui guasti economici e sociali della corruzione, e chiedere una legge capace di contrastarla con maggiore efficacia. Finora sono state raccolte più di 250mila firme, e oltre 300 parlamentari, appartenenti a diverse forze politiche, hanno firmato l'appello impegnandosi a concretizzarlo. La speranza è di arrivare in tempi brevi almeno alla riforma del reato di voto di scambio, la cui natura non può essere solo economica. Oltre che nella "mazzetta", la tangente viaggia infatti sui binari del privilegio, del favore, della raccomandazione, dell'omissione, dell'abuso. Contrasteremo seriamente la corruzione solo quando la fattispecie del reato non riguarderà solo lo scambio in denaro, ma tutti gli altri "benefici" che chiama in causa.
Non illudiamoci però che, fatta la legge, il nostro compito si esaurisca. Le leggi distinguono il lecito dall'illecito, stabiliscono le pene per chi trasgredisce, ma non possono da sole estirpare un male, e a maggior ragione se è un male ambiguo, capace di adattarsi alle situazioni e di mascherarsi se non come bene, come "male minore" e, a conti fatti, necessario.
Nella profonda riflessione che Papa Francesco, ancora cardinale Bergoglio, ha voluto dedicare alla corruzione (Guarire dalla corruzione, EMI) viene messo in luce come proprio questo sia il meccanismo che apre la strada alla corruzione. Il corruttore ha la tendenza a giustificare il proprio male o addirittura a non vederlo come tale, dal momento che la sua condotta trova il consenso del corrotto, il quale a sua volta minimizza la sua colpa volendo credere di essersi limitato ad accettare un'offerta. È questo reciproco assolversi che lega corrotto e corruttore dando loro l'impressione di non procurare grave danno, e proprio qui sta il carattere contagioso della corruzione, la sua capacità di diffondersi come reato ad alto rendimento economico e basso senso di colpa.
Per spezzare questo circolo vizioso non bastano allora i soli strumenti legislativi. Le leggi, come detto, possono certo limitare un reato, ma se il reato è stato "depenalizzato" nelle coscienze, è necessario un grande impegno educativo. La corruzione si combatte allevando persone vigili e critiche, capaci di riconoscere il male anche quando si cela dietro forme invitanti (il corruttore – scrive ancora il Papa – «sottomette il suo vizio a un corso accelerato di buona educazione»…e a ben vedere quanti ne abbiamo conosciuti, in questi anni, di suadenti imprenditori del consenso!).
Si combatte la corruzione insegnando che la fedeltà a se stessi è più importante della crescita del conto in banca, che l'io è il veicolo e non certo lo scopo della vita, che la proprietà non è un furto ma può diventarlo quando viene indebitamente accumulata, dimenticando la sua natura intrinsecamente sociale (sempre il Papa, con un'immagine fulminante, ci ha ricordato che non si è mai visto un camion da traslochi dietro un corteo funebre). E la si combatte, la corruzione, magari introducendo nei corsi di economia, nei quali formiamo i nostri futuri manager, anche qualche testo di Platone e di filosofia morale.
Coi giovani è come sfondare una porta aperta. Posso dirlo per esperienza diretta, dato che ne incontro ogni giorno molti. Un giovane è affamato di conoscenza, è mosso da inquietudini e domande profonde, non si limita a prendere atto che le cose esistono ma vuole sapere perché esistono. E se è informato, sveglio, desideroso d'impegnarsi – come ogni giovane che incontri sulla propria strada adulti capaci di ascoltarlo – è anche arrabbiato per come vanno le cose, sente che questo sistema è nel suo insieme corrotto. Ma non tanto perché affetto in senso stretto da corruzione, quanto perché malandato, stantio, inamovibile nelle sue logiche di potere, nei suoi privilegi, nella sua strisciante mafiosizzazione, nella sua ottusa difesa del "mercato" come unico garante del benessere a dispetto delle inefficienze e delle ingiustizie (la povertà diffusa e la disoccupazione non sono certo fatalità!).
Il problema della corruzione va allora certo affrontato con leggi, educazione e cultura, ma questi rimedi rischiano di risultare vani se non si troverà il coraggio politico di ridurre le gigantesche disuguaglianze che si sono prodotte in questi anni. La corruzione e le mafie ingrassano nel mare della disuguaglianza sociale. Sono forti dove i diritti sono deboli. Imperversano nel deserto della politica: quella "formale" di chi amministra il bene pubblico, e quella informale che ci chiama in causa come cittadini responsabili. Diamo a tutti la possibilità di vivere liberamente e dignitosamente, di riconoscersi diversi come persone e uguali come cittadini. Forse la corruzione non sparirà, ma tornerà a essere un semplice reato, non una patologia sociale, non il male che rischia di divorare le basi stesse della nostra democrazia.

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