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Questo articolo è stato pubblicato il 19 luglio 2013 alle ore 12:14.

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Le sacre du printemps - (Foto Giuseppe Distefano)Le sacre du printemps - (Foto Giuseppe Distefano)

Hanno segnato momenti significativi della sua attività creativa. Due capolavori che il tempo ha consacrato svelandone l'atemporalità stupefacente soprattutto dopo la scomparsa della sua artefice, Pina Bausch, che tanto ci manca, figura-guida del teatro del Novecento. Parliamo di "Café Müller" e "Le sacre du printemps", che il Teatro San Carlo di Napoli ha accolto trionfalmente ospitando l'esemplare Tanztheater Wüppertal. Il tempo non l'ha scalfito. È cambiato solo il muro della parete bianca con una porta.

Al suo posto dei pannelli trasparenti. Per il resto lo stanzone in penombra di "Café Müller" (1978) ingombro di sedie e tavolini, con una porta girevole sullo sfondo, è rimasto lo stesso. È il luogo dove la poesia dell'abbraccio fra l'uomo e la donna, fatto di amore e ostilità, di tenerezza e aggressività, non è mai stato espresso così potente, intensamente pudico e commovente.

Una coppia si stringe, un uomo li separa e impone loro una modalità di rapporto mettendo lei sulle braccia di lui. Si distaccano, ma l'intruso li rimette nella stessa posizione. Più volte si ripete la stessa scena anche quando rimangono soli. La donna si abbarbica al collo dell'uomo, che non riesce a trattenerla e la lascia cadere. Lei si rialza, si rimette sulle braccia, scivola di nuovo a terra. E così ripetutamente. In quel luogo intimo e claustrofobico, prigione esistenziale, s'aggirano altri corpi speculari, anime perdute in cerca di relazione. Di amore. Di luce. Come la sonnambula che avanza a occhi chiusi con le palme delle mani in avanti (ruolo che impersonava la stessa Bausch), caracollando, sbattendo sulla parete; o l'altra donna vagante con l'uomo che sposta continuamente la foresta di sedie per togliere l'ostacolo al suo avanzare cieco. Fra pregnanti silenzi assoluti e contrappunti musicali da "Dido and Aeneas" di Purcell, la Bausch attinge dai ricordi della sua infanzia per raccontarci, con rinnovata emozione, la miseria del corpo, il suo limite, la sua perenne aspirazione al contatto, all'amore.

Travolgente e spietata "La sagra" (1975) irrompe nella sua potente ritualità con sequenze superbe che, tra lancinanti assoli e violenti giochi di massa, visualizzano, nei due blocchi contrapposti di sedici uomini e quindici donne, le armonie stridenti della partitura di Stravinskij. Tra la furia maschile e il terrore delle donne che i movimenti incidono, alternati a momenti di quiete che aumentano la tensione, sul palcoscenico riempito di terra si svolge lo scontro tribale tra l'Eletta e la collettività che ne ha decretato il sacrificio. Inizia con la predestinata sdraiata sul grande fazzoletto rosso - simile ad una pozza di sangue che è presagio del destino che l'attende - che passerà di mano in mano sfuggendolo, o lì a terra nella danza circolare, osservato nel rito propiziatore. A differenza di altre versioni coreografiche che celebravano l'eros, quella della Bausch è una donna che lotta disperatamente con tutte le sue forze contro la propria sorte tentando di sottrarsi al sacrifico in una rivolta che genera pietà. Vestita di rosso, in una danza spossante di rifiuto e accettazione, soccomberà fisicamente, ma non la sua anima.

"Café Müller", musica Henry Purcell, "La sagra della primavera", musica Igor Stravinsky, regia e coreografia Pina Bausch, scene e costumi Rolf Borzik. Compagnia Tanztheater Wüppertal. Al Teatro San Carlo di Napoli.

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