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Questo articolo è stato pubblicato il 21 luglio 2013 alle ore 08:46.

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In Nashville, durante il party nella villa del folk singer Haven Hamilton, populista e ultraconservatore, la sua amante Lady Pearl ribatte alle proposte dell'addetto stampa del candidato governatore che Hamilton non fa campagna elettorale per nessuno.
«Per noi i politici sono tutti uguali». E dopo una pausa, con uno sguardo per un attimo sperduto: «L'unica volta che mi sono lasciata andare è stato per i ragazzi Kennedy. Ma loro erano diversi». S'intuisce che quella donna petulante e cinica ha creduto veramente ai "Kennedy boys", e li rimpiange con tutto il cuore. Diretto da Robert Altman nel 1975, Nashville è la summa di quello che si potrebbe definire "il cinema kennedyano": ossessionato dall'incubo della mente e della mano impazzita che premerà il grilletto per uccidere un simbolo (uno qualsiasi, in questo caso la cantante Barbara Jean), osserva la gente che si accalca intorno alla scena politica e musicale con un misto di raccapriccio e ammirazione, vivisezionandone le meschinità, ma incapace di abdicare a quegli ideali di giovinezza e libertà, di frontiere aperte all'intraprendenza di uno spirito coraggioso dei quali John e Robert Kennedy furono forse l'ultima incarnazione. Intorno al punto di non ritorno della perdita dell'innocenza americana, l'assassinio di John Fitzgerald Kennedy, a Dallas il 22 novembre del 1963, il cinema americano, che allora era fortemente liberal e talvolta addirittura rivoluzionario, costruì una vera e propria poetica, rispecchiando lo sconcerto e le paure del Paese davanti alla fine ineluttabile del "Sogno" e ai buchi neri della politica.
Benvenuti nella Paranoia, in quel mondo nero e minaccioso che due scrittori di genere racconteranno, tra noir e fantascienza, molti decenni dopo: James Ellroy con la Underworld Usa Trilogy (American Tabloid, 1995, Sei pezzi da mille, 2001, Il sangue è randagio, 2009), e Stephen King con 11/22/63 (2011), allucinante viaggio nel tempo per impedire l'assassinio di John Kennedy.
Dopo John, toccò a Malcolm X (il 14 febbraio 1965), a Martin Luther King (il 3 aprile 1968) e a Robert Kennedy (il 6 giugno 1968). Anticipato nel 1962 da un film di fantapolitica premonitore dell'omicidio del 1963, The Manchurian Candidate di John Frankenheimer (rifatto nel 2004 da Jonathan Demme), il giovane cinema indipendente che stava prendendo possesso dell'immaginario dominante, senza citare esplicitamente gli omicidi, riprodusse l'ansia, il sospetto e la disillusione che ammorbavano l'aria: Ciao America (1968) di De Palma, Il candidato (1972) di Michael Ritchie, Azione esecutiva (1973) di David Miller, La conversazione (1974) di Coppola, Bersaglio di notte (1975) di Penn, I tre giorni del Condor (1975) di Pollack, Perché un assassinio (1974) di Pakula, fino a Bob Roberts (1992) di Tim Robbins e Nel centro del mirino (1992) di Wolfgang Petersen, storie di complotti e tentati omicidi, di agenti che spiano e vengono spiati, di candidati presidenziali minacciati, dubbiosi, manipolati.
È nel 1991, con JFK: un caso ancora aperto di Oliver Stone, che il cinema passa dalla metafora all'analisi dei fatti. Kevin Costner diventa l'attore "kennedyano" per eccellenza, com'era stato Robert Redford nei decenni precedenti. E se Redford resta ancora oggi il prototipo del liberal hollywoodiano (lo dimostra il suo ultimo film, The Company You Keep, rivisitazione delle contraddizioni e dei dubbi di quei decenni), Costner, che in JFK era il procuratore di New Orleans che mise in discussione il rapporto Warren, nel 2004 in Thirteen Days di Roger Donaldson è il consulente dei Kennedy durante la crisi dei missili di Cuba. Le teorie del complotto dominano gli schermi, da Ruby - Il terzo uomo a Dallas (1992) di John Mackenzie a Hoffa, santo o mafioso (1993) di Danny De Vito, da The Good Shepherd (2006) di Robert De Niro alle serie televisive I Kennedy e The Company. Fino ai molti film in preparazione per il fatidico anniversario del novembre 2013: il tv movie Killing of Kennedy: the End of Camelot, Parkland di Peter Landesman, dal nome dell'ospedale nel quale il presidente venne ricoverato, Letters to Jackie di Bill Couturié, sulle lettere inviate nel 1963 alla vedova del presidente, Legacy of Secrecy di David O' Russell, con De Niro e DiCaprio.
La ferita è ancora aperta, ma negli ultimi decenni solo un film ha ritrovato il dolore cocente della perdita collettiva: Bobby (2006) di Emilio Estevez, ricostruzione, attraverso le storie di ventidue persone qualunque, del giorno in cui Robert Kennedy fu ucciso all'Hotel Ambassador di Los Angeles.
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