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Questo articolo è stato pubblicato il 21 luglio 2013 alle ore 08:45.

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Dicembre 1968. In un lungo, illuminato saggio tra filosofia e sociologia l'emergente jazzista Wayne Shorter, trentacinquenne, meditava su creatività e innovazione, sul successo e il come interpretarlo. Già si era messo in luce come tenorsassofonista e come compositore, prima nel gruppo di Art Blakey e ora, da quattro anni, nel più acclamato tra i quintetti di Miles Davis. Vi sarebbe rimasto per altri due, ma certo già sentiva la voglia d'andarsene. Pare non gradisse la nascente svolta del Miles "elettrico" e "rockettaro". Sì, pure lui aveva tante idee d'una musica nuova, ma non le stesse (lo dimostrerà presto con i Weather Report). Del resto aveva fin dal '64 un contratto con la Blue Note, e già incideva da leader. Di più, aveva intuito le possibilità del sax baritono, ed era pronto a mostrarsi anche con quello.
Forse da tutto ciò nacque quell'articolo sul DownBeat. Per il testo completo non c'è da frugar tra carte perdute, dato che nel 2009 la veterana rivista di jazz, celebrando i propri 75 anni, lo ripropose in un volume con i cento "pezzi" migliori della sua storia. Per dirne qui in breve, Shorter era tanto onesto da premettere che pure lui di qualche vittoria si era rallegrato, ma si chiedeva poi se il solo il primo di una di simili gare avesse talento e apprezzamento, e gli altri no. E si chiedeva pure se simile realtà di competizione l'avessero scelta i musicisti in quanto istintiva, insita nella specie umana; o ce li avesse trascinati la società in cui viviamo.
Problema sottile ma chiara la risposta del giovane musicista in ascesa: l'ideale era un'unione tra i musicisti, non una loro conflittualità. Lo confortava la fratellanza che era sicuro di notare tra i colleghi, anche d'altra generazione e diverso "stile". Parlava di involvement (cioè coinvolgimento, partecipazione), e non soltanto nell'arte, ma in un senso più generale, totale. Un auspicio per il futuro, ma con radici nel passato del jazz. Citava Blakey, un maestro per antonomasia: «La musica è come un fiume. Deve scorrere. Se un'acqua non ha né sorgente né foce, è destinata a diventare stagno».
Quel concetto riemergeva a conclusione del lungo saggio. «Ho avanzato l'idea di un "coinvolgimento totale". Tutto quel che ho detto sull'arte, sui giovani, sul business, indica che la musica e il musicista di domani saranno totalmente coinvolti. Né l'una né l'altro saranno confinati nel palcoscenico». Eccesso di ottimismo? In realtà molto della storia del jazz corre sulla base di una colleganza "speciale".
Voltiamo pagina. Sono passati 45 anni e Shorter ne compirà 80 il prossimo 25 agosto. Proprio il numero di DownBeat di quel mese recherà, come ogni anno, i risultati del referendum che dal 1953 la rivista svolge tra un centinaio e più di critici d'ogni parte del globo. I risultati già si conoscono da qualche giorno, e sarebbe interessante sapere che cosa possa pensare il giovane artista di allora, che non nascondeva il proprio scetticismo sull'utilità, per non dire la consistenza, di queste competizioni. Infatti Wayne Shorter è il trionfatore dell'anno, ed è stata, la sua, una delle vittorie che "fanno saltare il banco". Addirittura quattro volte primo: come "jazzista dell'anno", come migliore sax soprano, per il miglior gruppo, cioè il fedelissimo quartetto, e per il miglior disco, Without a net (se ne parlò qui lo scorso 17 febbraio).
Forse il vecchio saggio nasconderà dentro di sé un sorrisino compiaciuto, ma non peccherà d'orgoglio e non vorrà altra festa, lo si può scommettere.
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