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Questo articolo è stato pubblicato il 26 luglio 2013 alle ore 16:18.

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(Afp)(Afp)

«Se per venire qui stasera avete lasciato a casa figli, speriamo che adesso stiano dormendo e magari facciano bei sogni. Speriamo che sognino un mondo migliore di quello che rischiamo di lasciare loro». Si è congedato così Neil Young dal pubblico di Lucca, al termine delle due ore di concerto della prima tappa italiana dell'«Alchemy Tour 2013» in procinto toccare Roma questa sera.
Perché il rocker canadese leader dei Crazy Horse avrà anche 68 anni da compiere a novembre, il fisico piegato dagli acciacchi e la voce meno brillante di quella dei gloriosi tempi di «After the Gold Rush», ma resta generoso come l'hippie che non ha mai smesso di essere. Su e giù dal palco. Se ne sono accorti i 10mila spettatori accorsi ieri nella città pucciniana che, pur di assistere alle prodezze del songwriter di Winnipeg, hanno dovuto mandar giù l'ingombrante presenza di una vip area a baldacchino che rovinava la fruizione dell'evento a tanti e un sistema di teleschermi a led che, nel bel mezzo dei bis, ha dato forfeit. Cose che possono capitare alle nostre latitudini. Fortuna che Old Neil riesce più affidabile di vecchie usanze e nuove tecnologie. Piomba sul palco poco prima delle 22 accompagnato dagli amici di sempre: Frank «Poncho» Sampredro alla chitarra ritmica, Billy Talbot al basso e Ralph Molina alla batteria. Ed è una specie di rullo compressore: prima i circa dieci minuti di «Love and only love», poi la poesia rock di «Powderfinger». Due brani che suggeriscono con precisione le coordinate della serata, molto vicina alle atmosfere di opere come «Live Rust» e «Weld». Sulla stessa lunghezza d'onda anche gli estratti dall'ultimo album «Psychedelic Pill»: da un lato la title track più acida che mai, dall'altro una «Walk like a giant» destinata a esplodere in una tempesta di feedback. Ma non c'è acquazzone che prima o poi non finisca per stemperarsi in un raggio di sole: arriva così «Hole in the sky», ballad intensa come uno spiritual composta proprio nel corso del tour e fino a questo momento mai incisa.

La parentesi acustica
I brani nuovi non sono esattamente ciò che il pubblico si aspetta: alcuni spettatori cominciano a spazientirsi, vola persino qualche fischio. A ristabilire gli equilibri, in ogni caso, ci pensa Old Neil che si congeda momentaneamente dalla band, afferra chitarra acustica e armonica producendosi in una sequenza di quattro brani unplugged. Si parte da «Red Sun», proveniente dal cantiere di «Silver & Gold», quindi arrivano «Heart of Gold», punta di diamante di quel capolavoro chiamato «Harvest», le atmosfere country di «Human Highway» e l'inno dylaniano «Blowin' in the Wind». Pace fatta persino con i supporter più permalosi e scalmanati. Quanto basta per indugiare su un altro inedito, la pianistica «Singer without a song», la cui ambientazione da saloon promette bene e mantiene tutto. L'epos chitarristico di «Ramada Inn» rappresenta un'altra concessione alla produzione recente del Nostro, tutta olio di gomito e canale distorto.

Uno sguardo agli esordi
Quando è il caso, però, ci si guarda indietro con spregiudicatezza fino a cogliere l'idillio elettrico di «Cinnamon Girl», direttamente dal primo album con i Crazy Horse, le taglienti «Fuckin' Up» e «Surfer Joe and Moe the Sleaze» e soprattutto «Mr Soul», risalente addirittura agli esordi con i Buffalo Springfield. È il gran finale: tutti in delirio, nonostante la voce del Nostro cominci a fare qualche scherzetto. C'è giusto il tempo per i ringraziamenti e l'esecuzione di due bis: la malinconica «Roll another number» e la pirotecnica «Everybody knows this is nowhere», felice ricordo della prima corsa in groppa al «cavallo pazzo». Che, alla faccia degli anni, ancora scalpita sotto lo sperone di Old Neil.

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