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Questo articolo è stato pubblicato il 28 luglio 2013 alle ore 08:39.

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Da un lato la consapevolezza di dover mettere fine, in qualsiasi modo, alla tragedia della guerra, dall'altra i legami, le angosce, le incognite. La cronaca della drammatica seduta del Gran Consiglio del Fascismo fra il 24 e il 25 luglio del 1943, è anche storia di prospettive umane, intesa come personale vicenda psicologica di coloro che vi presero parte. «Ognuno aveva la sua propria gerarchia di valori che era anche la gerarchia dei moventi. Ci eravamo compresi e confusi attorno a quel tavolo, in quel comune denominatore che era stato la nostra passione originaria... Ventotto uomini e altrettante traiettorie che si erano incontrate quella sera in un atto comune», scrive Alberto De Stefani uno dei partecipanti alla riunione. Una testimonianza inedita che si aggiunge a una cronaca già studiata a lungo ma che offre una prospettiva particolare, a cominciare dalla tipicità del personaggio.
Veneto, proveniente da una famiglia di economisti, professore ordinario di economia politica, politicamente nato nei circoli nazionalisti, De Stefani è una figura di tecnico e studioso che aveva aderito al fascismo convinto che questo potesse essere decisivo per la modernizzazione dell'Italia. Il primo Mussolini, quello ancora aperto alla dinamica parlamentare, lo chiama nel '22 al governo affidandogli il dicastero delle Finanze e poi quello del Tesoro, dopo la rinuncia del popolare Vincenzo Tangorra. Adoperando il lessico giornalistico attuale si direbbe che fu il superministro dell'economia del fascismo. Fu l'artefice del raggiungimento del pareggio di bilancio nel 1925, ritenuto l'interprete di un certo «liberismo autoritario» ispirato alle teorie di Pareto e di Pantaleoni, elogiato da Luigi Einaudi per il rafforzamento della Ragioneria generale dello Stato.
Come spiega Francesco Perfetti nella prefazione, queste riflessioni furono scritte a caldo come «un tentativo di ripensamento critico della sua scelta di campo in quella occasione ma anche del proprio personale rapporto con Mussolini e con il fascismo stesso». Un breve memoriale scritto a mano, di getto, su quaderni di scuola elementare, a cui l'immediatezza conferisce un valore di testimonianza intima diverso da «un testo elaborato a posteriori».
Da anni De Stefani si era già defilato dalla prima linea del fascismo, abbandonando l'incarico ministeriale e tornando agli studi all'Università di Roma, dove sarebbe rimasto anche dopo la guerra fino al termine naturale della carriera accademica. Le note che stende, probabilmente mentre la lunga discussione del Gran Consiglio procedeva, sono una riflessione limitata ma densa su tutta la parabola del ventennio. Lo fa con gli occhi dell'economista, intellettuale liberista e conservatore: l'Italia non avrebbe mai dovuto entrare in guerra perché stava modernizzando la sua economia e la società. Doveva concentrare i suoi sforzi in questa direzione e non poteva reggere il confronto con la potenza industriale anglosassone. La guerra è persa e sta facendo tornare indietro il Paese di almeno un decennio. Si annienteranno alcuni successi che pure De Stefani rivendica al ventennio: il superamento della contrapposizione di classe, la tutela giuridica del lavoro, quello che chiama il concilazionismo fra lavoratori e datori di lavoro. Nessuno comprende le ragioni di un conflitto ben diverso, nelle motivazioni e nello spirito, da quello del 1915.
Mussolini gli appare stanco, prostrato, come se volesse lasciare e non ci riesce, «rimaneva muto, assente ostile». De Stefani inanella le sue percezioni. Il fascismo non ha compreso la vera natura del popolo italiano, ha pensato di poterlo militarizzare, lo ha chiuso in una camicia di forza, fatta di forme esteriori e della privazione della libertà. «La volontà operante», che il professore di economia riconosce al primo fascismo, si è persa nelle parole d'ordine inutili di Starace col suo fascista «meccanizzato e soldatesco». Critica, anche se tardivamente, la dittatura e la fine del pluralismo democratico.
Nel luglio '43, al punto a cui stanno le cose, per De Stefani l'Italia può fare un estremo tentativo per salvarsi, tornare alla legalità costituzionale e fermare la guerra. Ma la consapevolezza della dura realtà della sconfitta si accompagna ai sentimenti: «Oggi siamo accomunati dai ricordi, dai rimpianti, dai pentimenti. Quali cose hai fatto, o Duce, che non vorresti aver fatto...?». Vorrebbe fare molte domande a Mussolini, perché c'è al fondo ancora amicizia, ma le lascia nel suo quaderno.
La novità di questo manoscritto resta un punto d'osservazione diverso da quelli già noti dei Bottai, Ciano, Farinacci, Grandi, su cui gli storici hanno lavorato a lungo. De Stefani voterà a favore del famoso ordine del giorno che crea le premesse per la destituzione di Mussolini e la caduta del fascismo ma nelle ultime pagine avverte: «L'ordine del giorno Grandi aveva anticipato l'irreparabile forse di qualche giorno. Fu deciso da noi, ma sarebbe sopravvenuto anche senza di noi».
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Gran Consiglio, ultima seduta. 24-25 luglio 1943, Edizioni Le Lettere, Firenze, pagg. 112, € 15,00

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