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Questo articolo è stato pubblicato il 28 luglio 2013 alle ore 08:42.

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Sono sempre più convinto che i festival teatrali non debbano servire a presentare degli spettacoli più o meno di successo al comune spettatore – gli spettacoli che comunque potrà vedere in stagione – ma a indicare delle tendenze, dei fenomeni in atto. Avere un filo conduttore che colleghi fra loro le diverse proposte non è indispensabile alla riuscita della manifestazione, ma aiuta a dare un senso a ciò che si vede, a inquadrare i vari titoli in un contesto meno generico e occasionale.
Cosa succede, però, se queste linee non emergono, non si colgono con chiarezza nel divenire quotidiano del teatro, o se i direttori artistici dei festival non riescono a individuarle?
Mi pare che, dopo anni di innovazioni e di forti stimoli alla riflessione, questa estate 2013 ci consegni non tanto degli spettacoli più belli o più brutti, una maggiore o una minore fioritura di talenti – che per fortuna ci sono sempre – ma la mancanza di una chiave di lettura per capire da che parte stiamo andando.
Questo aspetto si è notato in quasi tutte le rassegne, ma ha assunto a Santarcangelo forse un valore più emblematico: un po' perché Santarcangelo è uno storico osservatorio sui fermenti della scena italiana e internazionale, un po' perché le sue penultime tre edizioni erano state improntate a precise scelte tematiche. Se, invece, già l'estate scorsa spiccava una molteplicità di anime diverse, quest'anno si è evidenziato un frammentarsi di percorsi indecifrabili.
Sarà ad esempio un caso che due presenze fra le più importanti del festival siano intervenute ciascuna con due lavori di stile diverso, se non opposto? Chiara Lagani di Fanny & Alexander ha infatti aggiunto al graffiante Discorso giallo, in cui analizza il ruolo formativo-deformativo della comunicazione televisiva, dal maestro Manzi ad Amici, il tenero, giocoso Giallo, «radiodramma dal vivo» precedente, affrontando il linguaggio pedagogico dal buffo punto di vista (e attraverso le voci) dei bambini.
Ancora più rivelatrice, per certi versi, l'esperienza di Teatro Sotterraneo, che alternava due «studi» di un nuovo progetto in fieri: Be legend!, che vuole indagare i grandi personaggi storici o fantastici partendo dalla loro identità infantile, e Be normal!, che ritrae i trentenni di oggi nei loro smarrimenti d'ogni giorno. Ferme restando l'ironia e l'intelligenza compositiva del gruppo, l'uno, incentrato su un Amleto di dieci anni, genialmente posto di fronte al proprio futuro, approdava a un'alta sintesi drammaturgica, l'altro, tutto calato nel magma della contemporaneità, doveva puntare per forza ai toni bassi.
Che rapporto ci può essere fra l'eleganza concettuale di Untitled, la performance di Alessandro Sciarroni che trasforma in coreografie le aeree geometrie e le silenziose relazioni reciproche di quattro jongleur che fanno volteggiare i loro birilli, e Dumy moyi di François Chaignaud, un pazzoide non privo di estro, che si esibisce in una grotta travestito da danzatrice indiana o da dea orientale, indossando straordinari costumi esotici con copricapi ornati di uccelli, cantando da baritono e da soprano, in una sorta di rito primordiale e decadente?
Anche i due eventi che toccavano direttamente le sensazioni dello spettatore, king, il suggestivo esperimento di «colonizzazione gentile del paesaggio» creato dal gruppo Strasse sulle colline, e Art you lost, un'installazione di vari artisti e gruppi romani che guidava un singolo partecipante per volta nei corridoi della scuola elementare, dove era indotto a rispondere a domande scritte o telefoniche sul suo privato, appartenevano a pianeti lontanissimi. Il primo giocava sugli effetti cinematografici, i campi lunghi, gli spazi aperti, il secondo sulla solitudine introspettiva.
Resta impresso, in tanta varietà, I Legionari del giovane lettone Valters Silis: definito un esempio di spettacolo post-drammatico, è affidato a due attori in canottiera che, senza scene, senza azione, invitano il pubblico a immaginare una vicenda del '46, le dispute sulla sorte di 168 legionari baltici di cui l'Unione Sovietica chiedeva alla Svezia la deportazione. Interpreti bravissimi, regia interessante, ma difficile da collocare: forse avrebbe richiesto un altro festival, tutto sul nuovo teatro politico.
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